Nessuna via di fuga dal Vesuvio - Diritto di critica
Non c’è pace sotto al Vesuvio. Un ospedale ipermoderno cresce sotto il tiro di lapilli e cenere, a 100 metri dalla linea rossa di massimo rischio. Un piano di evacuazione progettato vent’anni fa e mai finito non ha ancora raggiunto i cittadini che dovrebbe salvare. Forse perchè se lo conoscessero, riderebbero: alla strada della salvezza mancano ancora parecchi pezzi, i lavori sono fermi da dieci anni.
Il parco nazionale del Vesuvio non ha pace. Da ogni lato la Montagna è aggredita, tirata in ballo, giudicata: chi ci vede Gomorra, chi una terra sfortunata. O l’uno e l’altro. Alle pendici di sud-est cittadini e militari si fronteggiano davanti ai cancelli di Cava Vitiello, tra camion dell’immondizia bruciati e i sospetti di interessi camorristi. Sul versante ovest, sul litorale, l’abusivismo riporta nodi irrisolti al pettine. Ville extralusso e alberghi di nuova costruzione contendono le falde del vulcano alle case più modeste – ma non meno abusive – dei privati cittadini. Entrambi sono fuori posto, nel territorio dichiarato da anni patrimonio dell’umanità dall’Unesco e tutelato come parco nazionale da forestali, finanzieri, carabinieri e polizia. Per le case di privati cittadini è già pronto il decreto di demolizione, voluto dalla giunta Caldoro per “svoltare” dalle nefandezze dell’era Bassolino: per ville e resort milionari, come la Crowne Plaza, c’è solo silenzio, nemmeno tanto imbarazzato. Due pesi e due misure, che da una giunta all’altra non cambiano.
A nord ovest la Montagna diventa, suo malgrado, colpevole di tentata strage. Gli uomini, dimenticando le sue lezioni passate (la più recente è quella del 1944), stanno costruendo alle sue pendici una mega struttura sanitaria, l’Ospedale del Mare. Oltre 450 posti letto, 18 sale operatorie, con annesso un albergo per le famiglie dei malati, un centro commerciale, un centro direzionale e un parcheggio da 1300 posti auto. Un miracolo dell’architettura antisismica, che al modico costo di 190 milioni di euro garantirà alla popolazione il più avanzato e capiente nosocomio del Mezzogiorno (e tra i più grandi d’Europa). Sempre che non finisca sotto cenere e lapilli. Perchè la superstruttura, in cantiere dal 2005 tra progettazioni irregolari, rescissioni del contratto di appalto e dubbi vari, sorge a 7,7 km dal cratere del vulcano. Esattamente nel cono dei danni probabili in caso di eruzione, se si considera un vento di scirocco abbastanza frequente nel Sud Italia. La protezione civile sostiene che sia in zona sicura: è situato 100 metri al di fuori dalla linea rossa, che delimita le aree considerate a rischio massimo nel caso del grande botto.
Diversi vulcanologi hanno fatto notare che la linea rossa rappresenta solo un limite amministrativo, visto che ricalca i confini dei comuni coinvolti: alla lava e ai lapilli potrebbero invece interessar poco. In ogni caso, nello stesso piano di valutazione dei rischi redatto dalla Protezione Civile, il terreno di edificazione dell’Ospedale del Mare è definito “a rischio differito” (zona gialla): dove in ogni caso dev’essere attuata una progressiva evacuazione, semplicemente con tempi meno urgenti (per motivi logistici).
Tutto ciò si traduce in una domanda banale. Ha senso costruire un ospedale, progettato per durare decenni, nell’area che probabilmente sarà la prima a subire l’esplosione del vulcano? Mentre medici, pazienti e infermieri (almeno mille) vengono evacuati, chi si prenderà cura dei feriti dell’eruzione?
Certo, potrebbe andar bene. I cittadini potrebbero imboccare prontamente le vie di evacuazione predisposte nel piano della protezione civile e raggiungere zone sicure in poco tempo. Vivono 600mila persone all’interno della zona rossa, che secondo l’ente dominato da Guido Bertolaso verrebbero messe in salvo in poche ore. Peccato che nessuno sappia quali sono queste vie di fuga, e qual’è il piano di evacuazione: cosa fare, insomma, quando le cose precipiteranno. Un primo studio, realizzato negli anni Novanta, indica la statale 268 come la salvezza di Napoli: dal quartiere Ponticelli attraversa i comuni vesuviani per finire ad Angri, in provincia di Salerno. Due sole corsie, una per senso di marcia, limite tra i 50 e i 70 km orari. Peccato che sia ancora da ultimare: molte rampe di accesso si interrompono bruscamente su un campetto di calcio, o di fronte ad edifici abusivi. Alcune semplicemente nel nulla della campagna.
Oggi la Protezione Civile parla di un nuovo piano, più accurato e articolato: nè sindaci nè vulcanologi hanno potuto vederlo. Speriamo arrivi presto: o almeno, che arrivi tra le mani dei cittadini, sotto forma di cartelli o indicazioni stradali. Per ora, nemmeno il tom tom può salvarli dal Vesuvio.
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