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Diritto di critica | November 27, 2024

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Il mondo alla guerra delle valute - Diritto di critica

La mossa a sorpresa con la quale la Bank of Japan (BoJ) ha azzerato i tassi di interesse del Sol Levante costituisce probabilmente una delle scintille più evidenti di quella che, nonostante tante smentite, assume i tratti di una guerra fra valute. I movimenti valutari in corso ormai da settimane lasciano infatti intuire, per la loro mancanza di coordinazione, che stiamo assistendo a vere e proprie scaramucce fra Stati in lotta per salvare la propria ripresa economica.

Nei giorni scorsi la BoJ si è dichiarata pronta ad acquistare qualunque cosa pur di fermare la salita dello yen, il cui rialzo nelle quotazioni costituisce una zavorra sulle esportazioni: la moneta giapponese è considerata un ‘bene rifugio’, perchè il Giappone, nonostante il debito pubblico più alto del mondo e un’economia stagnante, viene percepito come particolarmente solido, persino più degli Stati Uniti.

Per abbassare il valore dello yen, la BoJ ha dunque intenzione di inondare il mercato valutario di nuove monete e banconote. Ma  quali conseguenze può avere una manovra simile sugli equilibri mondiali?

In un momento di forte incertezza economica e di timore di una ricaduta in recessione, fare leva sul potere delle monete è uno dei metodi più semplici per ridare slancio all’economia a breve termine, poiché rende più costose le merci estere (dunque i residenti preferiranno i prodotti locali) e più economiche quelle nazionali che vengono esportate.

Si tratta però di una manovra assai delicata, perchè a lungo termine l’alluvione di denaro può portare ad un surriscaldamento dell’economia e dunque ad un’inflazione galoppante. In secondo luogo azioni scoordinate fra banche centrali contribuiscono ad aumentare la volatilità dei mercati valutari, accentuando la sensazione d’incertezza fra gli investitori di tutto il mondo e favorendo così un rallentamento della crescita mondiale. Inoltre una guerra delle monete rischia di riproporre ciò che avvenne negli anni Trenta, quando i Paesi cercarono di scaricare la Grande Depressione su spalle straniere  a colpi di svalutazioni e dazi doganali, e finirono invece per accentuare la crisi.

Negli anni Ottanta, nel mezzo di una nuova crisi economica, si ripresentò una situazione analoga, ma all’epoca uno degli attori coinvolti vinse senza sparare neppure un colpo. Il presidente USA Ronald Reagan riuscì infatti ad ottenere un apprezzamento dello yen e del marco (e quindi un deprezzamento del dollaro) di circa il 54% in due anni. Questo creò le premesse per la poderosa crescita economica americana degli anni successivi, portando la disoccupazione a livelli eccezionalmente bassi, scatendando però ciò che è stato definito “il decennio perduto del Giappone”: un periodo, ormai ben più lungo di un decennio, in cui l’economia dell’arcipelago è rimasta sostanzialmente immobile. Anche l’Europa fu colpita dalla svalutazione del dollaro, ma in misura minore, perchè la ripresa statunitense trascinò con sé anche gli europei.

Trent’anni dopo, però, lo scenario economico è cambiato. Si fanno ormai sempre più insistenti le voci secondo cui la Federal Reserve statunitense potrebbe avviare un nuovo programma di quantitative easing per evitare che gli USA ricadano in recessione. Il quantitative easing, ovvero stampare denaro e inserirlo nel mercato acquistando titoli, altro non è che un tentativo di svalutazione del dollaro in modo da rendere più competitivi i prodotti made in USA.

Ma chi è il nemico degli USA questa volta? Non più il Giappone, ma la Cina, tant’è che il Congresso USA ha varato da poco alcune misure che aumentano la tassazione sui prodotti cinesi. La Cina infatti negli ultimi decenni ha assorbito un grande know how economico, e regge la sua economia proprio sulle esportazioni.

Negli ultimi anni il Dragone ha speso in media un miliardo di dollari al giorno per tenere sotto controllo le quotazioni dello yuan: alla Cina serve un tasso di  crescita al 7% per assorbire i nuovi cinesi che si affacciano in sempre più dense falangi sul mercato del lavoro; al contrario, una crescita inferiore farebbe letteralmente implodere le imprese locali, creando pressioni demografiche che il governo non potrà essere in grado di controllare facilmente. Per questo motivo una rivalutazione dello yuan avverrà molto più lentamente di quanto vorrebbero USA e UE.

La moneta cinese, lo yuan (o renminbi) risponde in modo molto preciso ai movimenti del dollaro, per cui un deprezzamento di questa moneta non avrebbe effetto sui cinesi.  Di conseguenza la crescita statunitense finirebbe per essere pagata non dalla Cina, che più di altri Paesi contribuisce agli squilibri valutari, bensì da altri Paesi del mondo: l’intervento della BoJ, dunque, serve a tamponare l’eventualità che il Giappone possa essere uno di essi.

Neanche le altre potenze emergenti sembrano disposte a pagare: Brasile e Corea del Sud hanno di recente aumentato le tasse che gravano sui titoli obbligazionari, allo scopo di controllare i flussi di capitale ed evitare che le monete si apprezzino troppo, azzoppando la competitività delle proprie imprese.

In un simile scenario di guerra (aggiungendo che anche la Bank of England si è detta pronta ad un deprezzamento della sterlina) l’euro appare come la vittima più probabile. A differenza del resto del mondo, infatti, la Banca Centrale Europea non ha intenzione di proseguire con un programma di iniezione di liquidità. La BCE è una delle banche centrali più indipendenti del mondo, e al primo posto nei suoi interessi non c’è la crescita economica (interamente demandata ai governi), ma solo il controllo dell’inflazione.

E’ dunque molto difficile che la BCE decida di inondare il mercato di euro freschi di conio, nonostante le pressioni di molti Paesi europei che ora come ora rischiano di vedere frenate le esportazioni se l’euro continuerà ad apprezzarsi. Le cose non sembrano essere destinate a cambiare se a Jean-Claude Trichet succederà in ruolo di governatore Axel Weber, che mercoledì ha ribadito la necessità di cominciare l’operazione di drenaggio.

Ma un’economia non vive solo della stampa delle banconote, quanto del lavoro e della produzione di nuova ricchezza, che di cui sono responsabili soprattutto i governi nazionali. I Paesi che oggi stanno soffrendo più di altri la crisi economica non possono cavarsela dando la colpa al Dragone, quanto guardando a fattori interni, in particolare politici. Ognuno è artefice del proprio destino, afferma un vecchio adagio, e oggi come sempre, a decidere se l’Europa vedrà la crisi o la ripresa non sarà il nemico straniero (sempre valido spauracchio retorico dei governi populisti), bensì gli stessi governi nazionali.

In tutto questo, l’Italia non si presenta pronta a questa corsa, poiché quindici anni di non-crescita economica, un debito pubblico alle stelle e la mancanza cronica di una classe politica in grado di dare fiato all’economia costituiscono una zavorra non indifferente, e stavolta, a differenza di tanti anni fa, non c’è più una moneta nazionale, la lira, disposta ad essere metaforicamente “stuprata” dalle svalutazioni. La soluzione, a livello nazionale, non è urlare contro lo straniero o contro gli speculatori, come ha di recente fatto il nostro ministro Tremonti, bensì preparare una politica industriale efficace, cosa che in Italia manca da secoli.

A meno di un’azione coordinata da parte di governi e banche centrali mondiali, insomma, una guerra fra monete rischia di creare una nuova Grande Depressione, con la differenza che stavolta sarà più difficile uscirne, a causa degli enormi debiti pubblici di molti Stati mondiali, a cominciare dagli USA, il cui ruolo di traino economico mondiale non può ancora essere preso dalla Cina e dalla sua economia ancora acerba.

Le vie di uscite sono quindi due: una nuova Bretton Woods o l’individuazione di un nuovo Giappone che però, date le premesse, rischia di essere il mondo intero.

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