L'odissea infinita dei prigionieri eritei 'liberati' in Libia - Diritto di critica
Sono stati liberati 205 profughi eritrei detenuti nel carcere libico di Al Braq: questa notizia, risalente a dieci giorni fa, aveva fatto tirare un grande sospiro di sollievo a chi, anche dall’Italia, auspicava una risoluzione veloce e indolore di una situazione che avrebbe potuto mettere a repentaglio i rapporti economici e di amicizia tra Italia e Libia. Una notizia che avrebbe dovuto far passare sotto silenzio – o scivolare nel dimenticatoio – le inchieste de L’Unità e di Rai3 che avevano denunciato le condizioni di vita disumane dei profughi (celle di 2 metri per 2 con temperature fino a 50°, violenze e negazione di cibo, acqua e cure mediche) e l’iniqua offerta di “lavoro in cambio di libertà” che le autorità libiche avevano proposto ai migranti: di fatto lavori forzati e schiavitù. Una notizia che avrebbe dovuto mettere a tacere le critiche per i respingimenti verso un Paese dichiaratamente antidemocratico come la Libia, con il benestare di politica e opinione pubblica italiani: sono stati liberati, punto. Tutto è finito bene.
Peccato che, in realtà, l’odissea per quei 205 profughi sia ben lontana dall’essere conclusa. A denunciarlo è ancora Moses Zerai, sacerdote eritreo che, tramite l’ong Habeshia, si fa portavoce delle difficoltà quotidiane e sempre più beffardamente crudeli in cui versano i profughi, nel completo disinteresse della comunità internazionale. I migranti rilasciati, infatti, non godono della ‘libertà’ che spetterebbe ai richiedenti asilo ed ai rifugiati politici: accompagnati a Sebah, 75 chilometri da Al Braq, senza soldi né documenti, hanno ricevuto soltanto un permesso di permanenza nel territorio libico con una validità di 3 mesi, allo scadere dei quali potranno chiedere il passaporto alla propria ambasciata. Un’odissea senza fine che vede queste persone bloccate – stranded – senza risorse, in una città ‘a tempo determinato’, oppure costretti a tornare nel paese dal quale erano fuggiti tramite viaggi atroci stipati su camion infuocati: l’Eritrea del dittatore Isaias Afeworki.
Di più: il permesso ottenuto non è valido sull’intero territorio libico, ma soltanto nella regione dove si trovano in questo momento, cosicché chi si allontana per raggiungere la costa mediterranea, rischia di tornare in uno stato di irregolarità ed essere nuovamente incarcerato. Queste notizie, fornite dal direttore del Consiglio italiano per i rifugiati, Christopher Hein, coincidono con quanto denunciato da Zerai, secondo il quale i profughi sono ora effettivamente ancora prigionieri: prigionieri di Sebah, abbandonati a se stessi, costretti a vivere per le strade e a sopravvivere grazie alla carità dei cittadini. Senza soldi, non hanno la possibilità di comprarsi il viaggio fino a Tripoli, e chi anche ci è riuscito è stato fermato dalla polizia libica perché ‘irregolare’ oppure è stato lasciato dagli autisti in mezzo al deserto, a pochi chilometri dalla città.
La soluzione, secondo Zerai, sarebbe soltanto una: «Aiutarli a raggiungere Tripoli è il primo passo, la soluzione a questa tragedia, come ad altre dello stesso segno, resta quella che dall’inizio avevano indicato i miei fratelli abbandonati: essere reinsediati in Italia o in un qualsiasi altro Paese dell’Europa che riconosca il diritto di asilo». Una soluzione che, tuttavia, appare ancora molto lontana e non risulta che finora alcun funzionario dell’ambasciata o consolare italiano si sia mobilitato per recarsi a Sebah.
Intanto, si iniziano a vedere gli effetti che i respingimenti hanno avuto sulle richieste d’asilo presentate nel nostro paese: se nei primi tre mesi del 2009 erano state presentate 4.680 domande, nello stesso periodo del 2010 ne sono state ricevute soltanto 2.200 circa (dati Eurostat/ Commissione europea sui 27 paesi dell’Unione). E sono praticamente spariti i richiedenti asilo del Corno d’Africa.
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