D'Alema, Renzi e Bersani. La sinistra che disintegra se stessa
Il progetto di Liberi e Uguali ha contribuito alla sconfitta del Pd. Con una mossa kamikaze
Sconfitta epocale. Non ci sono altre parole per definire il risultato di queste elezioni per il centro-sinistra. Il crollo è stato verticale e, anche se la sconfitta era annunciata, un risultato così magro nessun analista poteva immaginarlo. E pensare che nel 2008 Valter Veltroni si dimise per aver perso pur guidando una coalizione che aveva conquistato il 35% dei voti e un Pd che si era attestato al 33%. Altri tempi. Ere geologiche fa.
Renzi, il problema. Matteo Renzi da risorsa del Pd è diventato il problema. Non per le sue politiche, di certo. Il problema è semplicemente comunicativo. È un personaggio che ha incarnato il cambiamento ma che è rimasto schiacciato, poi, dal peso del suo stesso partito. Tanto amato all’inizio, tanto odiato oggi. Non contano i risultati economici (tutti gli indicatori hanno segno positivo) e le battaglie sui diritti civili. La colpa del suo insuccesso è della vicenda Monte dei Paschi e dalla questione banche. Colpa delle enormi aspettative che parte dell’elettorato aveva nei suoi confronti. Colpa della sua strafottenza. Colpa anche di una sinistra che ha puntato a logorarlo in ogni modo, dalla campagna referendaria in poi. Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, accecati da un odio viscerale verso l’ex sindaco di Firenze, non hanno fatto altro che remargli contro schierandosi per il No alla riforma costituzionale che avrebbe introdotto la fine del bicameralismo perfetto che gli stessi, anni prima, avevano inserito nel proprio programma di governo. Una riforma non perfetta, ma perfettibile, un segnale di svolta che avrebbe potuto dare la scossa a un paese immobile. Una consultazione che si è trasformata in un referendum su Renzi, non solo per colpa del segretario del Pd.
L’amara felicità di Bersani e D’Alema. Liberi e Uguali è riuscita nell’intento di far cadere il “re”. Ma ha perso miseramente la prova elettorale, strappando al Pd un misero 2% (stando ai flussi elettorali pubblicati dai principali istituti di ricerca) e raggiungendo appena il 3%, quota sufficiente a far eleggere una piccola pattuglia di candidati. Non ci sarà D’Alema, amaramente sconfitto dalla grillina Barbara Lezzi. Ci sarà, invece, Bersani e pochi, pochissimi altri. Poco importa che si sia superata la soglia del 3% perché il risultato – che secondo i massimi dirigenti della lista poteva essere a due cifre – è insufficiente per imporre al Pd una nuova direzione senza Renzi. Il segretario dimissionario indicherà la strada fino alla formazione di un nuovo governo per garantire un Pd di opposizione. Il segretario sarà forse Paolo Gentiloni o Maurizio Martina. Spetterà alle primarie indicarlo. Non saranno D’Alema o Bersani a poterlo imporre o a poter imporre un loro rientro tra le fila democratiche. Potranno, però, gioire per un possibile governo tra 5 Stelle e Lega. Chissà se per loro lì ci sarà posto. D’altronde Bersani provò a sedurre i grillini all’indomani del voto del 2013. Mentre D’Alema con la Lega un governo lo ha già fatto: era il 1995 e Bossi gridava “Roma ladrona”. A proposito di inciuci.
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Sconfitta epocale. Non ci sono altre parole per definire il risultato di queste elezioni per il centro-sinistra. Il crollo è stato verticale e, anche se la sconfitta era annunciata, un risultato così magro nessun analista poteva immaginarlo. E pensare che nel 2008 Valter Veltroni si dimise per aver perso pur guidando una coalizione che aveva conquistato il 35% dei voti e un Pd che si era attestato al 33%. Altri tempi. Ere geologiche fa.
Renzi, il problema. Matteo Renzi da risorsa del Pd è diventato il problema. Non per le sue politiche, di certo. Il problema è semplicemente comunicativo. È un personaggio che ha incarnato il cambiamento ma che è rimasto schiacciato, poi, dal peso del suo stesso partito. Tanto amato all’inizio, tanto odiato oggi. Non contano i risultati economici (tutti gli indicatori hanno segno positivo) e le battaglie sui diritti civili. La colpa del suo insuccesso è della vicenda Monte dei Paschi e dalla questione banche. Colpa delle enormi aspettative che parte dell’elettorato aveva nei suoi confronti. Colpa della sua strafottenza. Colpa anche di una sinistra che ha puntato a logorarlo in ogni modo, dalla campagna referendaria in poi. Pierluigi Bersani e Massimo D’Alema, accecati da un odio viscerale verso l’ex sindaco di Firenze, non hanno fatto altro che remargli contro schierandosi per il No alla riforma costituzionale che avrebbe introdotto la fine del bicameralismo perfetto che gli stessi, anni prima, avevano inserito nel proprio programma di governo. Una riforma non perfetta, ma perfettibile, un segnale di svolta che avrebbe potuto dare la scossa a un paese immobile. Una consultazione che si è trasformata in un referendum su Renzi, non solo per colpa del segretario del Pd.
L’amara felicità di Bersani e D’Alema. Liberi e Uguali è riuscita nell’intento di far cadere il “re”. Ma ha perso miseramente la prova elettorale, strappando al Pd un misero 2% (stando ai flussi elettorali pubblicati dai principali istituti di ricerca) e raggiungendo appena il 3%, quota sufficiente a far eleggere una piccola pattuglia di candidati. Non ci sarà D’Alema, amaramente sconfitto dalla grillina Barbara Lezzi. Ci sarà, invece, Bersani e pochi, pochissimi altri. Poco importa che si sia superata la soglia del 3% perché il risultato – che secondo i massimi dirigenti della lista poteva essere a due cifre – è insufficiente per imporre al Pd una nuova direzione senza Renzi. Il segretario dimissionario indicherà la strada fino alla formazione di un nuovo governo per garantire un Pd di opposizione. Il segretario sarà forse Paolo Gentiloni o Maurizio Martina. Spetterà alle primarie indicarlo. Non saranno D’Alema o Bersani a poterlo imporre o a poter imporre un loro rientro tra le fila democratiche. Potranno, però, gioire per un possibile governo tra 5 Stelle e Lega. Chissà se per loro lì ci sarà posto. D’altronde Bersani provò a sedurre i grillini all’indomani del voto del 2013. Mentre D’Alema con la Lega un governo lo ha già fatto: era il 1995 e Bossi gridava “Roma ladrona”. A proposito di inciuci.