Torna a casa azienda. Italia regina europea del ''back-reshoring'' - Diritto di critica
Sono sempre più i marchi made in Italy che ri-trasferiscono le loro sedi produttive nel luogo d’origine. Sarà utile a invertire il trend negativo della nostra economia?
Beghelli, Faac, Furla, Nannini, Bottega Veneta, gli yacht di lusso della Azimut. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Sono le grandi aziende che hanno deciso di fare back-reshoring. Ovvero, tecnicamente, di tornare a produrre in Italia dopo aver emigrato per anni nei paradisi della manodopera a basso costo, come Cina, Vietnam, Romania, Repubblica Ceca. Uno studio condotto nel 2014 da alcune università (Catania, L’Aquila, Udine, Bologna e Reggio Emilia) ha analizzato il fenomeno contando nel nostro Paese, su 376 aziende, ben 79 casi di rientri produttivi dal 2004 ad oggi. Certo, ci sono anche i casi limite come quello dell’azienda veneta di abbigliamento Belfe, che aveva trasferito anni fa la produzione in Cina, per poi rientrare nel 2004 e delocalizzare nuovamente in Bulgaria nel 2012; eppure nella classifica mondiale siamo secondi solo agli Stati Uniti, davanti quindi alle altre nazioni europee.
La nuova convenienza del made in Italy Ma quali sono le cause che hanno spinto e spingono i grandi marchi italiani a rientrare, scontrandosi nuovamente con gli alti costi del lavoro? I motivi sono essenzialmente due. A cominciare dal risparmio sulle spese di trasporto: dall’inizio degli anni Duemila il prezzo del petrolio, e quindi del carburante, è più che triplicato (da 20 dollari a 100 a barile). Far viaggiare le merci anche per migliaia di chilometri non è più così conveniente. Ma a far tornare indietro le imprese sono soprattutto le richieste dei clienti che cercano sempre di più prodotti artigianali e con la certificazione di qualità tutta italiana. Non a caso, la maggior parte delle aziende che hanno ri-localizzato è specializzata in settori di profilo medio-alto come l’abbigliamento e la pelletteria di lusso, le rifiniture di pregio, l’enogastronomia ecc. Il vice presidente della Fondazione Edison di Confindustria, Marco Fortis, aveva commentato così i dati sul back reshoring: «Nei Paesi emergenti sono aumentati i consumatori sofisticati, quelli che cercano un prodotto perché è italiano. Al cinese ricco e raffinato che acquista un bene di lusso non fa piacere scoprire che è stato prodotto vicino a casa sua». Non solo cinesi, ma anche russi e sudamericani, i nuovi ricchi che stanno esaltando il Made in Italy. Tra le altre cause che hanno incentivato il fenomeno: la scarsa qualità produttiva, l’aumento dei costi e della retribuzione dei lavoratori nei Paesi asiatici o in via di sviluppo, i ritardi nelle consegne.
Un segnale di ripresa? Certo il back reshoring può essere visto come un timidissimo passo avanti contro la disoccupazione, considerando che il rientro produttivo di un’azienda, per garantire la qualità richiesta, coinvolge tutte le fasi (dalla progettazione al servizio clienti), e si esprime quindi sin dalla formazione di giovani neo-laureati, ma non dimentichiamoci che la crisi economica italiana è dovuta principalmente al calo dei consumi interni, e che la delocalizzazione ha avuto il suo picco nei primi anni Duemila, prima della crisi vera e propria. Il fattore positivo però, come segnalano gli economisti, è quello di dimostrare nuovamente che in Italia si può investire (forse, se si abbassassero le tasse per le imprese e si riduce la burocrazia sarebbe molto meglio).
A metà strada Non solo back reshoring, infine, ma anche near-reshoring. Secondo la ricerca universitaria dello scorso anno circa una decina di aziende espatriate non ha fatto rientro in Italia, ma ha deciso di avvicinare i propri stabilimenti, riducendo così la distanza dalla località di produzione. E la tendenza vale anche per gli altri Paesi. Il colosso spagnolo di abbigliamento, Zara, ha spostato dall’Oriente al Portogallo alcune attività di fornitura, mentre Ikea ha lasciato l’Asia per tornare nel vecchio continente, facendo passare parte della sua distribuzione anche in Italia. La Philip Morris ha stipulato invece un accordo con la Coldiretti per la consegna e l’acquisto di tabacco italiano a chilometro zero, prodotto in svariate regioni come Veneto, Campania e Toscana.
Beghelli, Faac, Furla, Nannini, Bottega Veneta, gli yacht di lusso della Azimut. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Sono le grandi aziende che hanno deciso di fare back-reshoring. Ovvero, tecnicamente, di tornare a produrre in Italia dopo aver emigrato per anni nei paradisi della manodopera a basso costo, come Cina, Vietnam, Romania, Repubblica Ceca. Uno studio condotto nel 2014 da alcune università (Catania, L’Aquila, Udine, Bologna e Reggio Emilia) ha analizzato il fenomeno contando nel nostro Paese, su 376 aziende, ben 79 casi di rientri produttivi dal 2004 ad oggi. Certo, ci sono anche i casi limite come quello dell’azienda veneta di abbigliamento Belfe, che aveva trasferito anni fa la produzione in Cina, per poi rientrare nel 2004 e delocalizzare nuovamente in Bulgaria nel 2012; eppure nella classifica mondiale siamo secondi solo agli Stati Uniti, davanti quindi alle altre nazioni europee.
La nuova convenienza del made in Italy Ma quali sono le cause che hanno spinto e spingono i grandi marchi italiani a rientrare, scontrandosi nuovamente con gli alti costi del lavoro? I motivi sono essenzialmente due. A cominciare dal risparmio sulle spese di trasporto: dall’inizio degli anni Duemila il prezzo del petrolio, e quindi del carburante, è più che triplicato (da 20 dollari a 100 a barile). Far viaggiare le merci anche per migliaia di chilometri non è più così conveniente. Ma a far tornare indietro le imprese sono soprattutto le richieste dei clienti che cercano sempre di più prodotti artigianali e con la certificazione di qualità tutta italiana. Non a caso, la maggior parte delle aziende che hanno ri-localizzato è specializzata in settori di profilo medio-alto come l’abbigliamento e la pelletteria di lusso, le rifiniture di pregio, l’enogastronomia ecc. Il vice presidente della Fondazione Edison di Confindustria, Marco Fortis, aveva commentato così i dati sul back reshoring: «Nei Paesi emergenti sono aumentati i consumatori sofisticati, quelli che cercano un prodotto perché è italiano. Al cinese ricco e raffinato che acquista un bene di lusso non fa piacere scoprire che è stato prodotto vicino a casa sua». Non solo cinesi, ma anche russi e sudamericani, i nuovi ricchi che stanno esaltando il Made in Italy. Tra le altre cause che hanno incentivato il fenomeno: la scarsa qualità produttiva, l’aumento dei costi e della retribuzione dei lavoratori nei Paesi asiatici o in via di sviluppo, i ritardi nelle consegne.
Un segnale di ripresa? Certo il back reshoring può essere visto come un timidissimo passo avanti contro la disoccupazione, considerando che il rientro produttivo di un’azienda, per garantire la qualità richiesta, coinvolge tutte le fasi (dalla progettazione al servizio clienti), e si esprime quindi sin dalla formazione di giovani neo-laureati, ma non dimentichiamoci che la crisi economica italiana è dovuta principalmente al calo dei consumi interni, e che la delocalizzazione ha avuto il suo picco nei primi anni Duemila, prima della crisi vera e propria. Il fattore positivo però, come segnalano gli economisti, è quello di dimostrare nuovamente che in Italia si può investire (forse, se si abbassassero le tasse per le imprese e si riduce la burocrazia sarebbe molto meglio).
A metà strada Non solo back reshoring, infine, ma anche near-reshoring. Secondo la ricerca universitaria dello scorso anno circa una decina di aziende espatriate non ha fatto rientro in Italia, ma ha deciso di avvicinare i propri stabilimenti, riducendo così la distanza dalla località di produzione. E la tendenza vale anche per gli altri Paesi. Il colosso spagnolo di abbigliamento, Zara, ha spostato dall’Oriente al Portogallo alcune attività di fornitura, mentre Ikea ha lasciato l’Asia per tornare nel vecchio continente, facendo passare parte della sua distribuzione anche in Italia. La Philip Morris ha stipulato invece un accordo con la Coldiretti per la consegna e l’acquisto di tabacco italiano a chilometro zero, prodotto in svariate regioni come Veneto, Campania e Toscana.