Articolo 18, nel Pd sbagliano tutti
La minoranza democratica liquida una riforma epocale limitandosi a sottolineare l'eliminazione dell'articolo 18. Ma anche Renzi si ostina su un punto non essenziale
L’eliminazione dell’articolo 18 riapre nel Pd lo scontro tra renziani e parte della minoranza. Pierluigi Bersani e Stefano Fassina serrano le fila contro Matteo Renzi. “L’articolo 18 non si tocca oppure faremo un referendum tra gli iscritti al partito”. Una minaccia che può mettere in seria difficoltà il presidente del Consiglio, per nulla convinto di spuntarla tra i tesserati, molti dei quali legati alla tradizione socialdemocratica di fallimentare memoria.
Dove sbaglia Bersani. Non si può giudicare una riforma così incisiva (almeno negli intenti del governo) solo su un piccolo aspetto di essa: il superamento dell’articolo 18. Come se questo fosse l’unico diritto acquisito dai lavoratori in anni di lotte sindacali. Non è solo questo. Anzi, ne è solo una piccola parte. Una parte che vale solo per quei lavoratori assunti a tempo indeterminato esclusivamente in medie e grandi aziende, cioè circa il 2,4% del panorama industriale italiano. E tutti gli altri lavoratori? Un barista o un webmaster, anche se assunti a tempo indeterminato in società con meno di 15 dipendenti, già oggi non godono della protezione dell’articolo 18 che garantisce il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa. Di conseguenza, difendere l’articolo 18 significa difendere una disparità di trattamento tra i lavoratori, addirittura tra quelli assunti a tempo indeterminato. Ad essere coerenti fino in fondo, Bersani e Fassina dovrebbero proporre un’estensione dell’articolo 18 anche per tutti gli altri lavoratori assunti a tempo indeterminato. Ma se ne guardano bene.
Gli errori di Renzi. Ad agosto Renzi aveva spento le polemiche sull’articolo 18 sollevate da Angelino Alfano e da altri esponenti di Ncd. “È solo un tema ideologico, il dibattito a riguardo è inutile”, aveva – così – liquidato il problema. Oggi, invece, sembra aver cambiato idea. Ma il problema è che forse questa volta non è riuscito – come in altre occasioni – a governare al meglio la comunicazione: ha lasciato che i detrattori (i sindacati in testa) si focalizzassero solo sull’aspetto più controverso e probabilmente più marginale della riforma del mercato del lavoro, così come verrà presentata dal governo. Insistere su questo punto rischia di impantanare una riforma essenziale. Il Job Act può, effettivamente, convivere – attraverso piccoli aggiustamenti – con l’articolo 18.
L’eliminazione dell’articolo 18 riapre nel Pd lo scontro tra renziani e parte della minoranza. Pierluigi Bersani e Stefano Fassina serrano le fila contro Matteo Renzi. “L’articolo 18 non si tocca oppure faremo un referendum tra gli iscritti al partito”. Una minaccia che può mettere in seria difficoltà il presidente del Consiglio, per nulla convinto di spuntarla tra i tesserati, molti dei quali legati alla tradizione socialdemocratica di fallimentare memoria.
Dove sbaglia Bersani. Non si può giudicare una riforma così incisiva (almeno negli intenti del governo) solo su un piccolo aspetto di essa: il superamento dell’articolo 18. Come se questo fosse l’unico diritto acquisito dai lavoratori in anni di lotte sindacali. Non è solo questo. Anzi, ne è solo una piccola parte. Una parte che vale solo per quei lavoratori assunti a tempo indeterminato esclusivamente in medie e grandi aziende, cioè circa il 2,4% del panorama industriale italiano. E tutti gli altri lavoratori? Un barista o un webmaster, anche se assunti a tempo indeterminato in società con meno di 15 dipendenti, già oggi non godono della protezione dell’articolo 18 che garantisce il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa. Di conseguenza, difendere l’articolo 18 significa difendere una disparità di trattamento tra i lavoratori, addirittura tra quelli assunti a tempo indeterminato. Ad essere coerenti fino in fondo, Bersani e Fassina dovrebbero proporre un’estensione dell’articolo 18 anche per tutti gli altri lavoratori assunti a tempo indeterminato. Ma se ne guardano bene.
Gli errori di Renzi. Ad agosto Renzi aveva spento le polemiche sull’articolo 18 sollevate da Angelino Alfano e da altri esponenti di Ncd. “È solo un tema ideologico, il dibattito a riguardo è inutile”, aveva – così – liquidato il problema. Oggi, invece, sembra aver cambiato idea. Ma il problema è che forse questa volta non è riuscito – come in altre occasioni – a governare al meglio la comunicazione: ha lasciato che i detrattori (i sindacati in testa) si focalizzassero solo sull’aspetto più controverso e probabilmente più marginale della riforma del mercato del lavoro, così come verrà presentata dal governo. Insistere su questo punto rischia di impantanare una riforma essenziale. Il Job Act può, effettivamente, convivere – attraverso piccoli aggiustamenti – con l’articolo 18.
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Pienamente d’accordo.io continuo a ripetere che in quasi 20 anni di lavoro questo art 18 non è mai stato un deterrente x nessuna azienda grande e men che meno piccola visto che nn si applica. Nel 2006 io sono stata licenziata mentre mi curavo il cancro eppure lavoravo a tempo indeterminato.e avrei centinaia di esempi.
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