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Diritto di critica | November 24, 2024

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Job Act, verso contratti più flessibili. Ma il problema rimane il costo del lavoro

Piovono critiche dalla sinistra Pd alla proposta di Renzi e Poletti di introdurre un unico contratto a tutele crescenti. Ma qual è l'alternativa?

Tutele crescenti e addio articolo 18. Il dibattito sulla riforma del lavoro entra nel vivo. Il governo punta ad introdurre un modello contrattuale sulla falsariga di quello proposto da Pietro Ichino, giuslavorista ex Pd e oggi in Scelta Civica: un contratto unico che abbia tutele crescenti per il lavoratore. Stop al dualismo del mondo del lavoro con iper garantiti e iper precari. Contratti uguali per tutti, con una maggiore flessibilità in entrata. In base al progetto del governo, ovviamente, ci sarà anche una maggiore flessibilità in uscita con l’eliminazione dell’articolo 18 per tutti i nuovi contratti. Nessun obbligo di reintegro, ma solo un indennizzo per il lavoratore licenziato, un indennizzo più o meno sostanzioso. Una riforma che non piace a tutti, soprattutto nel Pd, “maggiore azionista” di questo governo.

Bersani e Fassina contro Renzi. “L’unica opposizione al governo Renzi è il Pd”, ha detto qualche giorno fa Roberto Begnini intervistato a Ballarò. Una battuta, certo, ma che contiene una parte di verità, per lo meno sulla questione del lavoro. Presentato il cosiddetto Job Act, nel partito c’è stata una vera e propria rivolta. Prima Stefano Fassina ha accostato Renzi alle politiche di Mario Monti e “della destra”, senza poi risparmiarsi con un nuovo attacco oggi: “Stiamo tradendo il mandato dei nostri elettori”. Commento laconico quello di Pierluigi Bersani che ha definito la proposta come “surreale”. Meno duri e più accondiscendenti i “giovani turchi” che orbitano intorno a Matteo Orfini, presidente Pd: “Chiederemo alcune modifiche”. Il vero problema per Matteo Renzi è l’articolo 18 che parte del Pd non vuole cancellare.

Addio all’articolo 18? L’eliminazione dell’articolo 18 – che oggi obbliga il datore di lavoro a reintegrare chi viene licenziato senza giusta causa – è un fatto quasi esclusivamente ideologico. Infatti, interessa – secondo i recentissimi dati forniti dalla Cgia di Mestre – il 2,4% delle imprese italiane e circa 6,5 milioni di lavoratori impiegati (di cui pochissimi giovani) nel settore privato. Che questa eliminazione possa dare una scossa all’economia è tutto da dimostrare. Tuttavia, non è chiaro perché metà dei lavoratori nel settore terziario e nell’industria possono usufruire di questa garanzia, mentre altri sono costretti a rimanere in un’area di continuo e prolungato precariato. Nel sistema attuale le imprese hanno sempre una parte di lavoratori a tempo determinato o con contratti a progetto (se non addirittura con fittizie partite iva). Questo perché un lavoratore precario costa meno e perché in caso di crisi è più semplice ridurre il personale. Ecco perché in tempi difficili il costo della crisi non è equamente distribuito su tutti i lavoratori, ma esistono di fatto impiegati di serie A e impiegati di serie B.

Più flessibilità, meno disoccupazione. Ma il problema non è l’articolo 18; è il lavoro. Come crearlo? Come rendere più facili le assunzioni? È certamente vero che una maggiore flessibilità in entrata si ha se è maggiore la flessibilità in uscita. Ciò significa che il datore di lavoro è più disposto ad assumere se sa che domani, se il rapporto non dovesse rivelarsi proficuo, può licenziare lo stesso lavoratore. Inoltre, maggiore flessibilità in uscita non corrisponde mai a maggiori tassi di disoccupazione. Si pensi agli Usa dove è facile licenziare: negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è oggi al 6,2%, ben al di sotto del livello italiano dove è più difficile licenziare. Negli Usa anche nel peggior momento della crisi, il tasso di disoccupazione ha sfiorato il 10%. Livelli che in Italia si raggiungono solo in fase di crescita economica.

Verso un sussidio di disoccupazione universale. Ma la flessibilità non basta. Se un lavoratore più facilmente perde il lavoro, dovrà essere aiutato fino a quando sarà in grado di ricollocarsi. Per questo va ripensato il sistema attuale che prevede la cassa integrazione (che è spesso anche un paracadute per le aziende inefficienti) verso un sistema universale che copra tutti i lavoratori.

Tagliare il cuneo fiscale. Ma il fulcro vero e proprio della riforma del lavoro non è la flessibilità e il sussidio universale di disoccupazione. Quello che realmente conta per attirare investimenti e per far ripartire l’economia è il taglio drastico del cuneo fiscale. In parole povere, è necessario ridurre il costo del lavoro (cioè il costo che un’azienda ha per retribuire un impiegato), agendo sulla riduzione della tassazione. Tassare di meno chi produce, e tassare di più chi possiede.

Chi critica questa impostazione dovrebbe dire di quali alternative disponiamo. Perché il sistema attuale, è ovvio, non funziona più.

Comments

  1. Giancarlo De Palo

    Ottime, chiare e condivisibili considerazioni. Grazie.