"Boicottiamo Israele e SodaStream". Ma a rimetterci sono i palestinesi
Ecco il risultato della campagna contro la multinazionale israeliana SodaStream: 900 operai palestinesi licenziati
“Boicottiamo Israele”. Con questo slogan gli anti-sionisti europei ed americani si sono uniti, quest’estate sui social network, in una campagna di boicottaggio dei prodotti “made in Israel” per protestare contro i bombardamenti e l’intervento militare di Gerusalemme in risposta al lancio di missili dalla Striscia di Gaza. La campagna si è accanita soprattutto contro la società SodaStream, produttrice di macchinari che rendono l’acqua frizzante o che trasformano l’acqua in cola e aranciata e ha ottenuto il risultato sperato: vendite crollate. Peccato che, però, a rimetterci non sono stati gli israeliani bensì i lavoratori palestinesi che lavoravano in SodaStream in uno stabilimento in Cisgiordania.
A rimetterci sono i solo i palestinesi. I filo-palestinesi europei e americani non avevano fatto bene i conti: se è vero che SodaStream è una multinazionale israeliana, è altrettanto vero che opera (anzi, oramai dobbiamo dire “operava”) anche in Cisgiordania, cioè in un territorio controllato dall’Autorità palestinese. Molti filo-palestinesi erano a conoscenza della presenza di questo stabilimento e già in passato era stato preso ad esempio come luogo di sfruttamento “imperialista” di Israele nei confronti dei palestinesi “ridotti in schiavitù”. Sta di fatto che con la chiusura dello stabilimento 900 palestinesi non hanno più un lavoro, retribuito ben al di sopra della media locale.
Il vero obiettivo? Tuttavia, non è da escludere il fatto che la chiusura di quello stabilimento (e quindi il licenziamento di 900 palestinesi) rappresentasse il vero obiettivo di questa campagna. Infatti, proprio in Cisgiordania registriamo tassi di crescita economica importanti e una situazione che va via via normalizzandosi. Pur rimanendo parzialmente sotto il giogo israeliano, l’Autorità palestinese ha intrapreso un percorso che sta isolando le fazioni violente (anche grazie a tassi di disoccupazione in diminuzione, oggi al 19,1%) e mettendo le basi per la crescita civile ed economica dell’area. Così dove non c’è disperazione non c’è lotta armata e l’ideologia anti-semita fatica ad attecchire.
“Boicottiamo Israele”. Con questo slogan gli anti-sionisti europei ed americani si sono uniti, quest’estate sui social network, in una campagna di boicottaggio dei prodotti “made in Israel” per protestare contro i bombardamenti e l’intervento militare di Gerusalemme in risposta al lancio di missili dalla Striscia di Gaza. La campagna si è accanita soprattutto contro la società SodaStream, produttrice di macchinari che rendono l’acqua frizzante o che trasformano l’acqua in cola e aranciata e ha ottenuto il risultato sperato: vendite crollate. Peccato che, però, a rimetterci non sono stati gli israeliani bensì i lavoratori palestinesi che lavoravano in SodaStream in uno stabilimento in Cisgiordania.
A rimetterci sono i solo i palestinesi. I filo-palestinesi europei e americani non avevano fatto bene i conti: se è vero che SodaStream è una multinazionale israeliana, è altrettanto vero che opera (anzi, oramai dobbiamo dire “operava”) anche in Cisgiordania, cioè in un territorio controllato dall’Autorità palestinese. Molti filo-palestinesi erano a conoscenza della presenza di questo stabilimento e già in passato era stato preso ad esempio come luogo di sfruttamento “imperialista” di Israele nei confronti dei palestinesi “ridotti in schiavitù”. Sta di fatto che con la chiusura dello stabilimento 900 palestinesi non hanno più un lavoro, retribuito ben al di sopra della media locale.
Il vero obiettivo? Tuttavia, non è da escludere il fatto che la chiusura di quello stabilimento (e quindi il licenziamento di 900 palestinesi) rappresentasse il vero obiettivo di questa campagna. Infatti, proprio in Cisgiordania registriamo tassi di crescita economica importanti e una situazione che va via via normalizzandosi. Pur rimanendo parzialmente sotto il giogo israeliano, l’Autorità palestinese ha intrapreso un percorso che sta isolando le fazioni violente (anche grazie a tassi di disoccupazione in diminuzione, oggi al 19,1%) e mettendo le basi per la crescita civile ed economica dell’area. Così dove non c’è disperazione non c’è lotta armata e l’ideologia anti-semita fatica ad attecchire.