"Il Pentatleta", vita da (giornalista) precario - Diritto di critica
P. è un ragazzo di Roma, ma potrebbe essere anche di Venezia, di Palermo e di mille altre città. È un aspirante giornalista, ma potrebbe essere anche aspirante cuoco, giudice, insegnante. Perché il protagonista del romanzo “Il Pentatleta” di Alessio Aversa (Aracne Editore) è l’alter ego di tutti i giovani italiani che sognano un lavoro stabile e lottano ogni giorno per crearsi una vita. Un percorso di cinque stage (proprio quelli che un preside universitario pronosticò all’autore come necessari prima di avere qualcosa di simile ad un contratto), esperienze ambivalenti e complesse che Aversa però delimita sin dall’inizio in un perimetro piuttosto positivo, di formazione: “Le cose, tutte, non le vediamo quando le abbiamo sotto gli occhi, ma solo quando inciampiamo in esse con i nostri adesso. E guarda caso, la vita avrebbe riservato al giovane P. proprio cinque prove. Le peggiori, quelle più massacranti, ma che sicuramente gli avrebbero riservato le soddisfazioni più grandi […] Cinque prove. Cinque ostacoli. Cinque nuove paure. Ma anche cinque conquiste. Un bagaglio di esperienze che alla fine avrebbe contribuito a fargli portare a termine la gara”. Scritto a ritmi serrati ed estremamente realistico, dal “Il Pentatleta” però emergono anche intatti la passione per il mestiere e i voli pindarici della mente di un giovane sognatore.
Ne parliamo con l’autore Alessio Aversa, giornalista che ha vissuto in prima persona il bello e il brutto dell’essere stagista seriale.
Alessio, chi è il Pentatleta?
Il Pentatleta, è il protagonista di una storia di stage. Un racconto, ahimè, comune a tutta quella generazione di giovani che si è ritrovata ad affrontare il mondo del lavoro, durante i terribili anni della precarizzazione e della disoccupazione. Questo scenario ha avuto come retropalco la crisi nera delle grandi economie nazionali, insomma una generazione di ‘combattenti disperati’.
Come ti è venuta l’idea di scrivere un romanzo sul precariato dei giovani?
L’idea è venuta dopo il mio primo stage, quello universitario, al quale è seguito un secondo. Poi un terzo, ci abbiamo aggiunto il quarto e siccome era troppo presto per meritare un contratto in Italia, è arrivato anche il 5°. Alla fine, le parole profetiche del preside della facoltà di scienze politiche, che definiva i suoi studenti ‘Pentatleti’ , sono diventate il pretesto per parlarne.
Nel tuo romanzo si avvertono palpabili, probabilmente anche per un rimando autobiografico, le emozioni e le ansie tipiche di un giovane che si affaccia al mondo enigmatico degli stage, spesso trattato con sufficienza nonostante la sua voglia di imparare. Io stessa mi ci ritrovo, riga dopo riga. Cosa hai evidenziato, tra i lati positivi e soprattutto quelli negativi del precariato?
Le leggi che hanno regolamentato lo stage in Italia, almeno fino alla nuove norme del 2012, sono state semplicemente un pretesto per abusare di giovani volenterosi e soprattutto pieni di energia, a costo zero. Nessun rimborso spese, nessun corrispettivo, nessun quadro di indirizzi ma soprattutto nessun responsabile diretto qualora le cose si fossero messe male. Mi spiego: per legge in ogni redazione ci sarebbe dovuto essere almeno un tutor, ma nessuno si è mai preoccupato di formare questa figura; così, nel più classico dei costumi italiani, il caporedattore sceglieva un giornalista a caso, spesso quello più mansueto, e gli ‘appioppava’ un giovane. Se il redattore delegato alla formazione dello stagista fosse stato all’altezza questo non si poteva sapere, lo si scopriva quando ormai era tardi e lo stage poteva già essere compromesso. Questo per me è il peggiore dei danni. Poi ci sono tutti i problemi legati alle spese: cinque stage completamente gratuiti sulle spalle di un ragazzo non sono uno scherzo, né per i genitori né per la coscienza di chi si sta assumendo un rischio cosi grande.