I giovani traditi e quegli adulti incapaci
Una riflessione senza sconti sui ragazzi che vivono oggi il difficile presente del nostro Paese, una frustata ai genitori e alla loro immaturità di adulti. Il libro “La congiura contro i giovani – crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni”, scritto dal sociologo Stefano Laffi (ricercatore presso l’associazione Codici), scandaglia nel profondo le ragioni dell’insuccesso di una generazione confinata in un ghetto esistenziale di buoni propositi e retorica proprio da quelli che ogni giorno dicono di volerla salvare.
Si inizia da bambini, riempiendo di premure, certezze e protezioni bambini ormai incapaci di sporcarsi le mani, abituati ad avere tutto e subito, principali target di pubblicità mirate che attraverso di loro colpiscono genitori annoiati o preda del senso di colpa. In una società votata al consumismo, dove l’illusione di potenza è veicolata dalle “rivoluzioni” tecnologiche degli smartphone, i giovani sono incapaci di “sentire” il mondo che li circonda, si illudono del presente nell’impossibilità di mettersi alla prova in un contesto che di loro parla in continuazione salvo mai concedere – se non a pochi e ben selezionati – l’opportunità di misurarsi con la vita.
Ed è così che – scrive Laffi – crescono ragazzi “stipendiati come figli”, immersi in una “socialità asettica”, incapaci a gestire un corpo veicolo della “nostra relazione con il mondo”. “Da noi – spiega il sociologo – la fabbrica prima e la guerra poi hanno tenuto vivo il contatto con il proprio corpo […], la prossimità con il dolore, con la sofferenza e con la morte”, preservando un “senso di integrità” che si è andato via via perdendo. E sempre sul corpo si è combattuta la battaglia degli anni Sessanta e Settanta fino ad arrivare all’oggi in cui quasi si è smarrito il sentimento di se stessi, con malattie come l’anoressia, la bulimia, l’obesità. “Un ragazzo che tenta il suicidio perché non ce la fa, una ragazza che si taglia per sentire il suo corpo e dare forma al suo dolore, un gruppo che si annichilisce di alcol in una serata il cui record è uscirne vivi… Non hanno inventato nulla, non hanno trasgredito alcunché, sono figli legittimi di questo tempo, sono buoni interpreti di questa sceneggiatura. Se nessuno dà loro retta quando parlano, parleranno con il corpo […] C’è più istinto di sopravvivenza che caduta dei valori in molti dei comportamenti giovanili che scandalizzano gli adulti”.
L’analisi di Laffi non lascia scampo: non giustifica i giovani, non assolve gli adulti. Ad essere in crisi è un’intera società, a partire da un sistema scolastico ormai in disuso, abbandonato a se stesso, decadente nelle forme e nei luoghi. Aule scrostate, lezioni sempre uguali, insegnanti frustrati che ripetono in modo monotono lezioni meccaniche e non si accorgono del malessere – la disattenzione degli scolari – che reclama un tipo di insegnamento ben diverso da quello subìto dai ragazzi quotidianamente. “Quando suona la campanella dell’intervallo – scrive Laffi – perché a scuola il tempo suona come in fabbrica, si può uscire, se solo ci fosse un fuori: perché spesso c’è solo il corridoio […] la claustrofobia dell’aula non è riscattabile”.
E come è in crisi un sistema scolastico disattento ai reali bisogni degli alunni, a essere ormai compromesso è il dialogo tra ragazzi e “adulti”. “Chi è più piccolo è tenuto ad ascoltare e obbedire, ha spazi di parola molto limitati, è spesso messo in discussione rispetto alla verità di quanto ha detto, pronuncia parole depotenziate che non producono conseguenze nella vita dei più grandi e che faticano ad averne sulla propria, mentre gli adulti parlano sempre e hanno sempre diritto di parola, non hanno oneri di ascolto, sono i giudici della verità dei bambini”. La stessa definizione di “minore”, secondo Laffi, è errata o quantomeno fuorviante: “Minore è un termine giuridico e inscrive un bambino o un ragazzo che inscrive chi ha meno di diciotto anni in una sorta di alveo protetto, sotto la potestà genitoriale. Quindi c’è l’idea di protezione, ma c’è anche il fastidioso implicito di quel segno di disuguaglianza, come se ci si definisse solo per confronto […] e da quel confronto si esca perdenti, “minori” finché non si hanno diciotto anni”.
Il tutto in un contesto sociale in cui si vive continuamente la contraddizione e il tradimento della parola, di quella unità fondamentale – veicolo tra il reale e la comprensione del mondo – su cui si basa la fiducia iniziale del bambino nei confronti della vita. E se – come nota il sociologo – il sentimento di giustizia nei bambini e nei ragazzi è spesso fortissimo, con il tempo la parola che interpreta il reale si logora, perde potere, viene tradita: “è proprio la comunicazione pubblica e istituzionale il luogo della crisi della verità: mente il leader politico che si smentisce il giorno dopo, mentono i portavoce e gli uffici stampa costretti a piegare la realtà sistematicamente in comunicazione promozionale, mente chi ti riceve in un colloquio di lavoro promettendoti prospettive che non può garantire, mente la missione militare che non è di pace, mente il sondaggio che ruba risposte non pensate a campioni di popolazione sempre più ridotti e selezionati, mente l’operatore finanziario che deve vendere i prodotti della sua banca, mentono le didascalie delle foto ritoccate, mentono le tariffe e i prezzi che nascondono negli asterischi cosa ti succederà, mente l’università che ha facoltà con nomi di professioni non più accessibili. La comunicazione pubblica – taglia corto Laffi – è talmente corrotta da aver creato professioni, programmi, riviste e libri esclusivamente dediti allo smascheramento”.
Il problema di fondo, allora, nella società del consumismo che illude gli utenti di onnipotenza, è che “le cose non stridono più, e allora ci si può raccontare quel che si vuole […] La nuova legittimazione della menzogna nello spazio della comunicazione pubblica e privata smonta completamente la possibilità di un patto fra le generazioni. Ai ragazzi non resta che interiorizzare un profondo senso di ingiustizia perché dalle parole corrotte delle istituzioni dipendono i loro giudizi a scuola, il verdetto delle loro abilità artistiche, le loro opportunità di lavoro”. Ed è così che “in uno sfondo di continuo depotenziamento del linguaggio solo su poche parole si dà battaglia e su quelle si avverte il clima di regime: perché parole come ‘identità’, ‘emergenza’, ‘crisi’, ‘libertà’ esistevano già, ma solo ora sono servite a distribuire soldi e poteri, a cambiare le regole e i diritti, a definire esclusi e privilegiati, a correggere la rappresentazione della realtà”.
Che la realtà giovanile sia ormai distopica, dunque, è ormai chiaro. E quella famosa definizione di “bamboccioni” andrebbe ribaltata: in una società divenuta fortino inaccessibile ai giovani, dove i gangli del potere sono saldamente in mano a pochi adulti, la buona volontà delle nuove generazioni viene annullata e rapita dall’altra “rivoluzione” – così vengono spesso chiamate – quella del nuovo smartphone o dell’ultima soluzione tecnologica, con la conseguenza che si impara sempre meno e si delega la memoria sempre più a navigatori, applicazioni e trovate high-tech.
In un contesto simile viene quindi da chiedersi “A cosa serve essere giovani in una società immobile?”. E segue a stretto giro la denuncia: “Un’esclusione che dura da tempo è passata sotto silenzio e la progressiva erosione dell’autonomia degli under 30 non ha innescato reazione: un lungo periodo di crescita economica e di benessere ha distratto da quanto stava accadendo. Così è successo che l’esilio dei giovani da esperienze, opportunità e occasione di vita veniva camuffato in vari modi. Per esempio da convivenze con genitori protratte a lungo mentre avveniva la mutazione di figli stipendiati in quanto figli, dall’idea diabolica della formazione infinita, master dopo master, all’inseguimento dell’ultima competenza decisiva che si rivelava sempre essere la penultima, dal mito della carriera artistica di massa sotto l’illusione di una possibilità per tanti di campare di talenti espressivi. Una volta finiti i soldi per finanziare tutto questo ed esplosa la bolla della sospensione giovanile, il sistema – economico, politico, civile – si è scoperto obsoleto, i giovani si sono sentiti bruciati nel precariato, i genitori si sono scoperti condannati a pagare mutui o affitti a figli invecchiati precocemente”.
E se in una società ormai simile “a uno scarabocchio” tutto sembra irrecuperabile, Laffi propone una soluzione, da raggiungere a piccoli ma costanti passi: recuperare il presente e nel presente ricostruire il dialogo, riscoprire la parola, il valore dell’emotività, della condivisione delle idee, l’attenzione verso il bene comune. “L’educazione – conclude Laffi – dovrà quindi dismettere i panni di esercitazione fittizia finalizzata a sviluppare sottovuoto abilità espressive […] per essere sempre più concreta, utile e civile, aderente a una realtà che chiede il nostro impegno, fatta di azioni verificabili e a beneficio collettivo”.
Certo, un intento simile presuppone un ripensamento globale del sistema educativo attuale, la riscoperta del tempo che scorre – foss’anche nel saper osservare e apprezzare il crescere di una pianta, distaccandosi dalla logica del tasto “play”: tutto e subito, come piace a me – recuperando un dialogo che nelle famiglie e nelle scuole ormai si è perduto, per aprire quindi le porte all’espressività dei giovani intesa come valore aggiunto capace di cambiare le istituzioni e la società, rispettando il valore della parola e della fiducia.
Twitter@emilioftorsello
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