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Diritto di critica | November 24, 2024

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Guantanamo d'Italia, la vita dentro i CIE. Intervista a Raffaella Cosentino - Diritto di critica

Guantanamo d’Italia, la vita dentro i CIE. Intervista a Raffaella Cosentino

ultima_frontieraL’INTERVISTA – Un’emergenza che fa comodo a molti: l’immigrazione in Italia è ormai una questione che non si sa o – peggio – che non si vuole risolvere, in un eterno rimpallarsi di responsabilità tra la politica nazionale e le istituzioni europee che – di contro – delegano il “problema” ai governi nazionali. Ma quello dell’immigrazione è anche un tema buono per qualsiasi campagna elettorale. Dalla Lega al Partito democratico, tutti l’hanno utilizzata per fare promesse mantenute poi con una soluzione che vìola i diritti dell’uomo e il diritto internazionale: i Centri di Identificazione ed Espulsione, altrimenti noti con l’acronimo CIE.

Per capire come si viva in questi centri di detenzione, permessi da un limbo giudiziario tollerato dai diversi stati dell’Unione e dai governi, Diritto di Critica ha incontrato Raffaella Cosentino, giornalista che da anni si occupa di immigrazione e che insieme ad Alessio Genovese ha girato e realizzato il primo documentario con scene dall’interno dei CIE: “EU013, L’ultima frontiera”.

Raffaella, qualche giorno fa hai visitato il CIE di Ponte Galeria, proprio negli stessi giorni in cui Khalid Chaouki si “barricava” a Lampedusa denunciando la condizione di abbandono in cui erano lasciati i migranti giunti sull’isola. Qual è la realtà di chi sta dietro le sbarre e le reti dei CIE in Italia? Come vivono, dormono, passano il tempo i migranti?

Se sei un uomo o una donna “ospite” di un Cie italiano, quando entri ti sequestrano il cellulare oppure ti fanno rompere la telecamera, così non puoi fare fotografie o riprendere quello che succede. Gli agenti ti portano in una grande gabbia, solo cemento e sbarre di ferro, chiusa da un cancello di cui gli “operatori” che gestiscono il centro possiedono le chiavi. Dentro la gabbia ci sono altre gabbie più piccole. Dentro le gabbie interne ci sono le “stanze”, che sono camerate da sei posti di solito, dove dormi con gente che non hai mai visto prima, di tutte le nazionalità e di tutte le lingue, nella totale promiscuità. Il tuo vicino di letto può essere un ex detenuto che ha scontato tanti anni di carcere per omicidio, rapina o spaccio, nel letto accanto c’è il padre o la madre di famiglia con consorte e figli in Italia, il lavoratore incensurato sempre sfruttato in nero, la cosiddetta “badante” presa in un blitz al supermercato, il ragazzetto tunisino appena maggiorenne che sognava una vita migliore in Europa o di raggiungere il fratello maggiore in Francia, la vittima di tratta e di sfruttamento della prostituzione. Tutti insieme in quella cella a guardare il soffitto per 24 ore al giorno. L’unica divisione che c’è è quella tra reparti maschili e reparti femminili.

Non sai quanto rimarrai dentro. Dopo poco ti fanno incontrare il giudice di pace per l’udienza di convalida del trattenimento, con un’avvocato d’ufficio che a stento sa come ti chiami. L’udienza dura dieci minuti e il giudice ovviamente convalida per 60 giorni. Dopo 60 giorni c’è un’altra udienza. Speri di uscire. Ma il giudice convalida per altri 60 giorni e così continua fino a 18 mesi. Tu aspetti di vedere il giudice pensando che farà giustizia, perchè devono essersi sbagliati a portarti in un carcere così duro. Tu non hai commesso reati. E invece siccome devi essere identificato ed espulso, devi restare lì dentro, ti dice il giudice. Per quanto tempo ? Gli chiedi. Per altri 60 giorni e poi vediamo, ti risponde.

In media si resta nel Cie almeno 10 mesi, con trasferimenti assurdi del tipo: Roma -Trapani – Gorizia. Per quale motivo? Nessuno lo sa. Intanto che aspetti di conoscere la tua sorte, non puoi fare niente. Non puoi tenere una radio, delle pile, un libro, una matita, un quaderno, una penna. Sono tutti arnesi estremamente pericolosi nella ratio del Cie perchè potresti usarli per autolesionismo, ad esempio ingoiarli. Se mangi tre o quattro pile finisci in ospedale e da lì potresti provare a scappare. Anche l’accendino o il tappo della bottiglia sono pericolosi. Quindi, tutte le volte che ti vuoi accendere una sigaretta, devi chiedere il permesso all’operatore che ha l’accendino e viene ad accendertela.

Le stanze hanno letti inchiodati al pavimento, armadi a muro fatti di cemento e senza ante perchè sono pericolose per il rischio di rivolte. Hanno finestre senza oscuranti in modo che tu possa sempre essere controllato giorno e notte, con i fari esterni puntati contro. Se vuoi avere il buio di notte devi usare le coperte e metterle sui vetri delle finestre.

I materassi lerci non sono veri materassi come li intendiamo noi e sono coperti da lenzuola usa e getta.

Questa è la vita del “trattenuto” nel Cie che non è detenuto e se scappa non commette reato di evasione, perchè ufficialmente è un “ospite”, solo che è accolto in una gabbia più ferrea di un carcere.

Io purtroppo non sono potuta entrare a Ponte Galeria nel giorno di Natale perchè la prefettura di Roma non ha risposto alla richiesta di acceso stampa che avevo inviato due giorni prima. Nella stessa giornata ha autorizzato l’accesso dei soli operatori video del Tg2 con la motivazione che loro avevano inviato la richiesta. Ma anche io l’avevo fatto. Il problema è che l’accesso per la stampa resta una concessione arbitraria, quando dovrebbe essere un dovere tutelare il diritto di critica e la libertà di stampa. Non devono essere le prefetture a decidere il giorno in cui devo accedere, devo essere io a poter entrare esibendo il tesserino da giornalista quando ritengo che ve n’è la necessità.

Nel nostro Paese i media parlano sempre degli arrivi via mare, dei barconi per Lampedusa, mentre ben poco si dice di chi giunge in Italia con un visto turistico, di lavoro o per motivi di spettacolo (penso alle “ballerine” provenienti dall’Est Europa e rinchiuse nei night). Qual è il reale peso degli arrivi via mare sul totale degli ingressi?

Prima di tutto il ministero dell’Interno avrebbe secondo me il dovere di fornire delle statistiche aggiornate. Se il ministero non dispone di queste statistiche, mi viene da chiedere su che base attua le sue politiche. Le ultime disponibili pubblicate nel 2007 parlavano di circa un 15% del fenomeno che arriva dal mare. Lampedusa è diventata per l’Europa intera l’icona delle migrazioni irregolari, ma in realtà questa immagine è scorretta. E’ solo una piccola percentuale che passa da lì e si tratta nel 90% dei casi di richiedenti asilo, profughi, come è ovvio dedurre dal fatto che per rischiare la vita in mare anche in inverno devi essere veramente senza altra chance. I rifugiati fuggono da una morte certa andando incontro a una morte probabile.

La maggioranza dei migranti irregolari nel nostro Paese è comunque entrata dagli aeroporti e dai porti regolarmente, con un normale visto turistico o con un contratto e relativo permesso di lavoro. Poi si sono fermati oltre la data consentita, perchè avevano un visto come turisti o studenti e invece lavorano, oppure perchè hanno perso l’impiego con la crisi e sono scivolati nel lavoro nero e quindi nell’irregolarità. Si chiamano “overstayers“.

I CIE sembrano una soluzione che difficilmente verrà cancellata (di solito gli si cambia solo nome), una sorta di tampone per arginare ma non risolvere il “problema”: esiste una soluzione a questi arrivi o è piuttosto la politica ad avere tra le mani un tema sempre buono sotto elezioni?

I Cie sono un’emergenza democratica e non sono un problema che riguarda i migranti. Sono istituzioni totali paragonabili ai manicomi, secondo l’opinione di Ong come Medici per i diritti umani e secondo gli psichiatri. Basti pensare che anche dal punto di vista sanitario i Cie sono extraterritoriali. Le Asl non entrano nei centri e l’assistenza medica è fornita da dottori che sono assunti e pagati dagli enti gestori privati.

Per questo riguardano tutti noi cittadini italiani ed europei, perchè nel momento in cui accettiamo che ci siano porzioni del territorio nazionale sottratte alla Costituzione e al controllo democratico, in cui si ledono i diritti fondamentali, stiamo accettando la fine dei nostri valori fondanti. I Cie sono strutture non riformabili e devono essere chiusi immediatamente.

La menzogna è insita già nel nome, perchè non servono a identificare ed espellere, ma solo a rinchiudere e punire, forse come spauracchio e ulteriore arma di ricatto per tutto l’esercito dei senza diritti. Parlo di quelle centinaia di migliaia di migranti senza permesso di soggiorno che sono costretti ad accettare qualunque proposta e soluzione lavorativa pur di sopravvivere. I Cie sono dunque una macchina punitiva perfettamente funzionale al nostro sistema economico. Tuttavia, solo la metà dei “trattenuti” viene effettivamente rimpatriata e i costi sono altissimi, almeno 55 milioni l’anno senza contare le spese per le forze dell’ordine, il cui spiegamento è ingente nei Cie.

I politici spesso parlano dei Cie senza esserci mai entrati e legiferano o sproloquiano sulla materia partendo dall’incompetenza. Per questo è stata fondamentale l’azione negli ultimi due anni e mezzo portata avanti con la campagna LasciateCIEntrare che è riuscita a portare nei centri parlamentari, consiglieri regionali, amministratori locali, giornalisti, giuristi e attivisti. Il grande “scandalo” di cui si grida oggi arriva dopo che il terreno politico e culturale è stato preparato nel tempo. Va comunque ricordato che il merito è principalmente dei migranti. Sono loro che filmano video della vergogna, loro che si oppongono al razzismo istituzionale arrivando a cucirsi le bocche a sangue per protesta contro il trattamento da animali che subiscono in queste strutture. Sempre loro che a Rosarno, Nardò e Castel Volturno si sono più volte spontaneamente ribellati alle mafie e allo sfruttamento.

Quello dell’immigrazione verso l’Europa è stato per decenni un sistema che si è retto su accordi – più o meno taciti – con quei regimi – penso all’Egitto, alla Libia, alla Tunisia – caduti a seguito della primavera araba: come stanno cambiando i flussi verso il nostro Paese a seguito delle rivolte e dei regimi caduti?

Gli accordi per l’esternalizzazione delle frontiere che hanno fatto di quei Paesi della sponda sud del Mediterraneo dei ‘gendarmi’ dei confini europei sono tuttora in atto, ripresi subito dopo la caduta di quei regimi, tranne una breve parentesi nel 2011 quando con le rivoluzioni si aprirono le frontiere e chi ha potuto ne ha approfittato.

Ma già allora l’Italia era considerata una terra di transito. Oggi lo è sempre di più. Passare dall’Italia significa dover attraversare un numero minore di frontiere per arrivare in Nord Europa rispetto, ad esempio, alla rotta balcanica.

Questo paese non è più appetibile per i migranti economici (migranti volontari) ed è visto con orrore da tutti i rifugiati (migranti forzati) per le condizioni disumane e vergognose di accoglienza.

Sicuramente l’Europa dovrebbe gestire diversamente questo fenomeno, vedendolo come una risorsa. Il sistema attuale per i rifugiati che si basa sul regolamento Dublino, ad esempio, scarica tutta la pressione sui paesi che si trovano ai confini europei e impedisce il ricongiungimento familiare, legando il destino di una persona al primo luogo in cui ha lasciato le impronte digitali. A noi ormai sembra normale, ma in realtà se ci pensiamo bene, è una cosa folle.

Personalmente, da calabrese nata a Catanzaro quale sono, ritengo che parte importante dell’identità italiana sia nel Mediterraneo più che in continente. Non capisco perchè dobbiamo accettare di tracciare un confine rigido in mezzo al mare che ci separa da popoli e Paesi con i quali condividiamo una tradizione di cultura e di scambi. Un calabrese ha molto più in comune con un tunisino che con un tedesco. Sarebbe quindi opportuno dare possibilità di movimento e libertà di circolazione nell’aera Schengen anche alle persone della sponda sud del Mediterraneo. Libertà di circolazione vuol dire anche libertà di venire in Europa con un volo aereo per tre mesi e poi poter decidere di tornare a casa, come facciamo noi quando proviamo a tentare la fortuna a Londra o a Berlino. Nel caso dei rifugiati poi, è un vero e proprio crimine che la legge non preveda un modo legale di chiedere asilo all’Italia se non quello di prendere una barca e arrivare irregolarmente rischiando la vita. Una cara amica, Marta Bellingreri ha scritto un libro su Lampedusa con la sindaca Giusi Nicolini. Voglio ricordarne la domanda cruciale: “La domanda che pongo è: perché in un Paese come l’Italia e in Europa il diritto di asilo deve essere chiesto a nuoto? Perché bisogna lasciare che madri con i bambini in braccio si imbarchino per il Mediterraneo? Perché bisogna occuparsi solo dei sopravvissuti che arrivano qui? Non è un crimine aspettare che i migranti siano decimati dal mare?” – (Giusi Nicolini, 13 luglio 2013)

Con Alessio Genovese avete girato il primo documentario con scene dall’interno dei CIE: “EU013, L’ultima frontiera”. In un’Italia che considera i migranti “clandestini” (categoria che non esiste nel diritto internazionale) è un atto di coraggio.

Effettivamente l’atto di coraggio è stato quello di entrare nei Cie di Bari, Roma, Trapani, ma anche all’aeroporto internazionale di Fiumicino e al porto di Ancona, piantando una telecamera e riprendendo quello che accadeva intorno a noi. Doveva essere sempre “buona la prima” perchè non avevamo modo di studiare prima il contesto o di ripetere le scene. Nè sapevamo o conoscevamo i nostri personaggi e protagonisti, quelli che avrebbero mostrato sullo schermo l’idea di frontiera che ci domina oggi. Vale a dire che incarnano la più grande contraddizione dell’Europa democratica e “premio Nobel per la Pace”. Non sono attori. La vita e il ‘caso’ hanno deciso che queste persone sono gli agenti che operano in frontiera oggi o che sono intrappolati nel limbo dei Cie, cioè nella sala d’attesa della frontiera.

Tra gli agenti della polizia di frontiera siamo dentro le loro stanze, quando ci sono i briefing dei poliziotti che vengono formati per essere lo sbarramento dell’Europa, perchè i nostri confini, ricordiamolo, non sono più solo ‘nostri’, sono dell’aera Schengen. Nei Cie siamo dentro la gabbia con i trattenuti, a raccogliere brandelli di vita e riflessioni compiute sulla base dei mesi passati in quelli che loro chiamano “centri di sofferenza”. Facciamo vedere, nei limiti del possibile, il punto di vista degli uni e degli altri. Ma dietro tutto questo, come spiega bene Lassad, un tunisino incontrato al Cie di Trapani, c’è qualcosa di ancora più profondo. C’è la costruzione della nostra identità collettiva, siamo gli europei dell’era Schengen e ci connotiamo come “comunitari”, rispetto a un altro, un diverso che è “extracomunitario” e che in base a questa distinzione abbiamo deciso di rinchiudere nei Cie in una sorta di ergastolo bianco che non ha mai fine.

Perchè si esce dal Cie con l’intimazione a lasciare l’Italia entro sette giorni e al successivo controllo dei documenti si viene portati di nuovo in un Cie per altri 18 mesi. Una pena senza fine, che non arriva alla fine di un processo e che sostanzialmente non ha un vero motivo.

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