Il teatro che riscatta l'Africa
«Quando si immagina l’Africa, si tende a pensarla sempre bisognosa d’aiuto. In realtà, se si entra in un’ottica di scambio invece che di assistenzialismo, si percepisce un’umanità vera e profonda che non ha bisogno di pietismi». A parlare è Margherita Tassi, 29enne di Calusco d’Adda (Bergamo), che una borsa di studio e la passione per il teatro hanno portato a vivere e lavorare nella banlieu di Dakar, in Senegal. Un’esperienza, la sua, che le ha permesso di entrare in contatto con un mondo fertile e vivace – nonostante le spesso avverse condizioni sociali ed economiche – come quello del panorama teatrale africano, delle sue potenzialità e della sua forza propulsiva e generatrice, che fa del teatro un motivo di riscatto personale, prevenzione sociale e crescita umana.
«Sono stata in Senegal la prima volta a gennaio, grazie ad un viaggio di formazione assegnatomi a seguito dello spettacolo Buonanotte, Orso Bianco, che avevo presentato con la cooperativa per la quale lavoravo alla maratona teatrale “Per amore o per forza” promossa dal Comune di Bergamo – spiega Margherita, che in Italia lavorava come educatrice -. In quell’occasione io e altri due allievi attori siamo stati a Diol Kadd, nel cortile-studio di Takku Ligey Théâtre del direttore artistico Mandiaye Ndiaye, per uno scambio culturale con la troupe Sant Yalla di Yeumbeul, un quartiere della banlieu di Dakar. E’ stata un’esperienza da cui sono nati forti legami umani e professionali».
La collaborazione di Margherita con Takku Ligey Théâtre – che opera a livello rurale, urbano, nazionale e internazionale con iniziative pedagogiche e di spettacolo sotto il carisma di Mandiaye – è proseguita infatti anche nei mesi a venire; a giugno è infatti tornata in Senegal per lavorare alla prima edizione di FESTEJ (Festival de théâtre pour l’enfance et la promotion de jeunes talents africains) e all’inizio di ottobre, grazie alla borsa di studio Euromondo promossa dall’Università degli Studi di Bergamo e dal Comune di Bergamo, ha fatto ritorno nel paese africano per un’esperienza di lavoro continuativa nel campo del teatro e delle arti sceniche: «mi occupo della scrittura di progetti, opero su quelli già esistenti e lavoro, insieme a Mandiaye, al Takku Ligey Théâtre e alla troupe Sant Yalla, con ARTOS Pikine (Associazione nazionale degli artisti senegalesi, dipartimento della città di Pikine). Inoltre si sta lavorando alla costruzione di un centro internazionale delle arti sceniche».
Il teatro, nel contesto in cui si è trovata ad operare Margherita, rappresenta in qualche modo una possibilità di riscatto che va ben oltre la semplice retorica e che, soprattutto, ha preso il via all’interno della società invece che da uno stimolo esterno: «la troupe Sant Yalla è nata per offrire un’alternativa valida alla delinquenza, attraverso un fare artistico rigoroso – spiega ancora Margherita -: tutto questo non è nato su impulso di una qualche ong, ma è stata un’idea loro, di persone che vivono in condizioni di povertà».
La situazione socio-economica delle zone nelle quali opera Takku Ligey Théâtre non è infatti delle più rosee: «la maggioranza delle persone vive nelle banlieu della periferia di Dakar, tra inquinamento altissimo, traffico e povertà – racconta Margherita – . Nonostante questo, la banlieu è ricca di giovani talenti, che lavorano con rigore al teatro a partire da ciò che possiedono: il proprio corpo… E i Sant Yalla ne sono un esempio. In questo modo si crea un mix di competenze estremamente valido e ciascuno nel gruppo impara a mettere a frutto le proprie competenze». Iniziativa come i Sant Yalla spesso faticano a raggiungere un livello d’azione istituzionale tale da poter essere incisivi su larga scala, sebbene lentamente ci si stia muovendo anche in quella direzione per colmare la lacuna, ad esempio con corsi di formazione e promozione.
«Se ci si approccia all’Africa e alle sue pesanti problematiche con un’ottica umana, ci si rende conto delle sue enormi potenzialità e automaticamente viene meno il lato assistenzialistico e paternalistico che un po’ ci portiamo appresso. Questo dà un senso di appartenenza – conclude Margherita – perché qui l’arte è davvero motivo di riscatto, crescita, sviluppo e dialogo tra esseri umani».
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