L'islanda non vuole più l'Europa (e fa bene)
L’Islanda, isola ribelle all’austerity internazionale, chiude le trattative con Bruxelles. L’Ue non offre nulla di buono: solo quote di pesca restrittive, debiti miliardari da pagare, pesanti limiti ad internet e alla proprietà individuale. E l’islandese medio, che è sceso in piazza a protestare contro la nazionalizzazione del debito delle banche private, non vuole aver nulla a che fare con il Continente dell’Austerity.
Un sogno brevissimo. L’avvicinamento all’Europa era iniziato all’indomani della crisi finanziaria, con il governo socialdemocratico di Johanna Sigurdardottir, il 16 luglio 2009. La speranza è quella di ancorare la propria moneta, sempre fluttuante, alla solidità dell’euro, oltre che di sfruttare l’ombrello economico e politico di Bruxelles nel nuovo mondo senza centro. Eppure gli ostacoli sono molti. L’Islanda è appena fallita, con il crack delle tre principali banche private: la nuova nazionalizzazione di questi istituti ha causato un boom del debito pubblico e delle tasse.
I debiti da saldare. Reykjavik ha fatto ricorso ad un prestito del Fondo Monetario Internazionale per restituire il denaro perduto ai propri correntisti, per una cifra di 1,6 miliardi di euro. In cambio, avrebbe dovuto varare un piano d’austerity simile a quello greco. Nel frattempo, il fallimento della banca online Icesave (paragonabile al Conto Arancio nostrano), ha mandato sul lastrico i correntisti inglesi e olandesi che vi avevano versato i propri risparmi, per un valore di 3,8 miliardi di euro. Londra e L’Aia hanno anticipato i soldi, convinti di potersi veder rimborsare da Reykjavik.
La colpa islandese. L’islandese medio non ci sta, a pagare questi debiti. Primo, perché li hanno causati delle banche private. Secondo, perché non c’è stato nessun controllo sui comportamenti speculativi (oggettivamente assurdi e sconsiderati) da parte dei banchieri privati. C’è però da dire che qualcuno quei prestiti l’ha ricevuti. Tra il 2000 e il 2007 l’indebitamento dell’isola è passato dal 100% al 450% del Pil. In parte è denaro di speculazione, che i cittadini non hanno mai visto: in parte, però, ha finanziato mutui, prestiti personali e ipoteche. Inoltre, per quanto l’Islanda dichiari di essersi rimessa in piedi da sola, ha accettato denaro straniero (quello dell’Fmi) per rimborsare i propri correntisti: ora loro stessi non vogliono che lo Stato rifonda altri correntisti privati (quindi comuni risparmiatori) inglesi e olandesi “truffati”, come loro, dalle banche. Un po’ contraddittorio.
Ma tant’è. Entrare in Europa non ha alcuna attrattiva per l’Islanda di oggi. Il voto di aprile ha fatto cadere il governo socialdemocratico – favorevole all’austerity, anche se con le debite correzioni – e gli isolazionisti del Partito del Progresso e quello dell’Indipendenza. La chiusura dei negoziati ne è semplicemente la conseguenza.
Starà meglio l’Islanda “da single”? Probabilmente sì. Non è punibile (tranne che per sanzioni, peraltro improbabili, da parte dell’Ue) per la causa in corso alla Corte Suprema Europea, dove Regno Unito e Olanda reclamano i loro soldi. Non deve rispettare quote pesca considerate punitive (anzi, ha già aumentato unilateralmente il proprio volume di pesca allo sgombro, in barba alle trattative). Non deve sottostare alle limitazioni di internet che Bruxelles sta preparando per tutelare la proprietà intellettuale. Insomma, starà meglio. Proprio perché non paga i suoi debiti e nessuno le dice quel che deve fare.
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