Israele-Palestina, riparte la pace?
Stasera, a Washington, gli Stati Uniti proveranno a far ripartire i negoziati di pace fra israeliani e palestinesi. Obama affiderà a John Kerry il compito di riannodare i fragili fili di trattative interrotte ormai quasi tre anni fa. Ieri il governo Nethanyahu ha dato apparenti segni di apertura e disponibilità, approvando la liberazione di 104 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Ma, quando si tratta di conflitto israelo-palestinese, prudenza e scetticismo sono d’obbligo.
L’avvio delle trattative. La decennale guerra tra Israele e Palestina è uno di quei temi su cui il presidente americano Obama ha deciso di giocarsi il proprio prestigio internazionale. Vuole far ripartire i negoziati di pace, bruscamente interrotti nel settembre del 2010. La “missione impossibile” è stata affidata al segretario di Stato, John Kerry. E l’ex candidato democratico alla casa Bianca un primo risultato lo sta per portare a casa: nella serata di oggi, a Washington, si incontreranno i rappresentati delle due parti, nel concreto tentativo di far decollare di nuovo le trattative. Per Israele ci saranno Tzipi Livni (ministro della giustizia) e Yitzhak Molcho; per la Palestina Seab Erekat e Mohammed Shtayyeh.
Le concessioni di Israele. Difficile dire se il tentativo sia fondato o velleitario, se si tratti di un concreto passo avanti o dell’ennesimo gioco delle parti. Di positivo c’è il segnale di apertura che il governo israeliano sembra aver voluto mandare a quello palestinese con l’approvazione, domenica scorsa, di un provvedimento molto contestato: la liberazione di 104 detenuti palestinesi, la maggior parte in carcere perchè accusati di terrorismo. Un’iniziativa che lo stesso Nethanyahu ha definito “sofferta”, ha provocato molte proteste e rischiato di spaccare l’esecutivo. Il rilascio dei prigionieri avverrà in 4 fasi, per dar modo agli israeliani di verificare l’effettiva “buona volontà” dei palestinesi durante le trattative. Per portare a casa il risultato, però, il premier ha dovuto concedere all’ala più conservatrice del suo partito l’approvazione di un altro provvedimento, che obbligherà a sottoporre a referendum popolare confermativo qualsiasi accordo di pace. Un referendum che, peraltro, se si svolgesse oggi vedrebbe vincere i “sì”: secondo i sondaggi,, infatti, il 55% degli israeliani è favorevole ad un accordo di pace.
Quale pace? Il problema, più che altro, è definire contorni e contenuti di questa “pace”, visto che, negli anni, la situazione si è sempre più complicata. Stando alle dichiarazioni ufficiali, a Washington si ripartirà dagli accordi del 1967, ovvero due popoli in due stati. Il che significherebbe restituzione, da parte di Israele, di gran parte dei Territori occupati dopo la guerra dei “Sei Giorni”, co-amministrazione di Gerusalemme, riconoscimento reciproco dei due governi. E poi ci sarebbero da gestire le delicate questioni dei coloni israeliani e dei rifugiati palestinesi. Progetto ambizioso, quindi, e puzzle quantomai delicato. Per Israele significa fare marcia indietro su molte “affermazioni di principio” e dimostrazioni di forza degli ultimi anni; per la Palestina significa dimostrare di saper tenere a bada le frange estremiste. Per questo è meglio non farsi prendere da facili ottimismi, la strada per la pace è tutta in salita.
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