La seconda rivoluzione egiziana, chieste le dimissioni di Mursi
Milioni di persone scendono in piazza conto Mursi; neanche nel gennaio 2011 si era vista una mobilitazione del genere, fiumi di manifestanti, una vera catena umana. Ora inizia la vera rivoluzione egiziana.
Mentre durante la giornata di domenica la situazione era rimasta relativamente tranquilla, con lo scendere della notte i temuti scontri hanno avuto inizio; secondo alcune fonti un primo bilancio ufficiale parla di 14 morti e 900 feriti. Prese d’assalto alcune sedi della Fratellanza e il Palazzo Presidenziale.
L’attivista Mona Seif racconta un fatto estremamente grave: in piazza Tahrir un’auto appartenente ai Fratelli Musulmani avrebbe rapito due giovani ragazze e si sarebbe diretta verso la sede centrale dell’organizzazione a Moqattam. In seguito all’allarme lanciato dalla Seif in molti si sono recati presso la sede della Fratellanza, già sotto assedio, per liberarle ma dall’interno dell’edificio partivano colpi di arma da fuoco in direzione dei manifestanti. Sempre secondo fonti egiziane in loco risulterebbe accertato che all’interno della sede dei Fratelli ci sarebbero membri di Hamas che sparano con armi automatiche da dietro pile di sacchi di sabbia. Le forze dell’ordine sarebbero giunte nei pressi dell’edificio per fare irruzione ed arrestare i cecchini ma il Procuratore Generale, recentemente nominato dal governo, si sarebbe rifiutato di autorizzare l’intervento.
Tutti aspettano un preannunciato discorso di Mursi, ma il presidente egiziano sembra essere sparito, non è ben chiaro dove si sia rifugiato e quali provvedimenti abbia intenzione di prendere.
Le richieste della popolazione sono semplici: dimissioni di un presidente che ha abbandonato il percorso rivoluzionario, ha interrotto il dialogo con le opposizioni passando invece a una polarizzazione tra “buoni e cattivi” o, come affermato da alcuni predicatori radicali vicini al governo islamista, tra “fedeli e infedeli”.
Una definizione che non sta in piedi anche perché sono in molti i religiosi che hanno duramente criticato un governo che sembra molto più interessato a perseguire gli interessi della Fratellanza, piuttosto che quelli del popolo.
A nulla è servito il tentativo di infiltrare “fedelissimi” all’interno delle varie istituzioni, tra cui anche la magistratura; come non è servito perseguitare giornalisti e conduttori televisivi come Bassam Yousef; una persecuzione che, secondo l’ANHRI, ha portato il governo Mursi a un triste primato, quello del numero di denunce nei confronti dei giornalisti che sarebbe di quattro volte maggiore rispetto all’era Mubarak e ventiquattro volte più grande rispetto a quella di Sadat. Una strategia che rispecchia perfettamente un certo tipo di ideologia che mal si coniuga con i principi di “democrazia” e “costituzionalità” citati da Mursi in diverse occasioni.
Un interessante aspetto di questa seconda rivoluzione, a differenza del 2011, è la varietà per quanto riguarda la composizione sociale in piazza: milioni di manifestanti di tutte le età e classi sociali, provenienti dalle zone più disparate del paese; laici e religiosi, musulmani e cristiani; membri di diversi schieramenti politici; giovani e meno giovani; tutti insieme per chiedere un’unica cosa, le dimissioni del presidente e nuove elezioni.
Il movimento Tamarod è riuscito a raccogliere in due mesi più di ventidue milioni di firme e chiedere le dimissioni del governo islamista (Mursi vinse le elezioni con tredici milioni di voti) e le immagini di domenica parlano chiaro.
Il Fronte di Salvezza Nazionale ha dichiarato che i manifestanti resteranno in strada finchè Mursi non rassegnerà le dimissioni e indipendentemente dal fatto che l’8 luglio avrà inizio il mese sacro di Ramadan.
Mursi dal canto suo ha dichiarato in un’intervista al Guardian di non avere alcuna intenzione di lasciare la poltrona e che non vi sarebbe stata alcuna “seconda rivoluzione”; il presidente egiziano ha inoltre affermato che non avrebbe tollerato alcuna deviazione dall’ordine costituzionale in quanto le sue dimissioni indebolirebbero la legittimità di un suo potenziale successore, portando così il paese verso un caos generale.
Un alto membro dei Fratelli Musulmani, Mohamed al-Beltagui, ha invece dichiarato che non sarebbe stato permesso un colpo di stato nei confronti del governo del presidente Mursi.
Il fatto che il governo dei Fratelli Musulmani faccia di tutto per non mollare era prevedibile e non sorprende nessuno, visto e considerato che il partito è ben consapevole del fatto che in caso di nuove elezioni difficilmente tornerà al potere a breve termine. Quello che invece fa sorridere è la “dialettica mursiana” che, almeno apparentemente, mira a voler far credere di avere a cuore il processo di democratizzazione del paese; peccato che a Mursi ormai credono in pochi. La legittimità del governo è ormai giunta al capolinea e se Mursi ha imparato un minimo dalla Primavera Araba dovrebbe essere ben consapevole del fatto che non si può andare contro la volontà popolare. Quando milioni di persone si riversano per le strade e chiedono elezioni anticipate, nessun governo democratico, nel vero senso del termine, può permettersi di negargliele; è qui il limite tra la legittimità e l’illegittimità.
A questo punto Mursi si trova davanti a un bivio: o va contro la volontà popolare, non si dimette e rischia di portare il paese verso una guerra civile oppure segue la via della “responsabilità” e indice nuove elezioni.
Una cosa è certa, il popolo egiziano ha tutte le intenzioni di riprendere in mano quella rivoluzione dirottata un anno fa per dirigersi nuovamente verso quella tanto auspicata democrazia, libera da strumentalizzazioni di stampo moralistico-religioso utilizzate da certe lobbies per scopi che hanno ben poco a che spartire con la volontà popolare e, paradossalmente, con la religione stessa.