Il processo Ruby e quelle trenta (presunte) false tesimonianze
IL GRAFFIO – La condanna in primo grado per Silvio Berlusconi sul caso Ruby denuncia (e per opposizione si regge su) almeno trenta presunte false testimonianze. A queste si aggiunge la mancanza di una parte lesa che sia una: non un concusso, non una vittima conclamata per induzione alla prostituzione. Al contrario, secondo i giudici che hanno mandato gli atti alla Procura, almeno trenta persone avrebbero dichiarato il falso.
Nella truppa di presunti bugiardi, un funzionario di polizia (Giorgia Iafrate, che non ha mai dichiarato di aver subìto pressioni), un vicemninistro, due deputati (di cui un europarlamentare). Secondo i giudici, le loro dichiarazioni e quelle di diversi altri testimoni sarebbero da verificare. Né ci sono poliziotti che – ad oggi – sono stati incriminati per aver violato prassi o regolamenti. Delle due l’una.
Siamo d’accordo che la storia della “nipote di Mubarak” fa sorridere i più ma, come spesso accade, un conto è la verità “storica”, altro quella processuale. Che va appurata con prove schiaccianti. Secondo i pm, Berlusconi sarebbe stato incastrato da una “prova logica” e cioè il “non poteva non sapere”, non poteva non conoscere la minore età della ragazza marocchina.
E mentre in Italia si esulta per la pesantissima sentenza, all’estero qualche dubbio viene sollevato. Il problema inquietante dell’Italia è che per battere politicamente Silvio Berlusconi serva il ricorso alla giustizia – scrive in un fondo il progressista Sueddeutsche Zeitung, maggiore quotidiano tedesco, sottolineando che la sentenza milanese “getta una luce inquietante” sul governo – “Ma è ancora piu’ inquietante”, rileva il giornale, “ciò che la sentenza sembra confermare: ammesso che ci si riesca, solo la giustizia può costringere Berlusconi a sgombrare il campo. In Italia non appare possibile batterlo con le armi della politica o della cultura”. Per il resto, tra novanta giorni le motivazioni.
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