La carneficina dei lavoratori
Fra pochi giorni sarà il primo maggio e tanti Paesi si presteranno a commemorare la Festa dei lavoratori, la nostra piazza San Giovanni si riempirà di musica e colori. Note e toni, però, si fanno un po’ più sordi e sbiaditi, a fronte di trecento corpi senza vita: quelli recuperati a Savar, estrema periferia di Dacca, sotto i detriti del Rana Plaza. Operai, vittime innocenti, probabilmente ignari che a Roma, come a Berlino, a maggio si celebri la loro festa.
Ma cos’era, veramente, il Rana Plaza? Apparentemente, un edificio di otto piani che ospitava cinque imprese tessili, vari negozi e una banca. Un formicaio, in realtà una prigione, un sistema di sfruttamento umano organizzato. Prima del crollo di mercoledì scorso, la polizia aveva intimato l’evacuazione della struttura. Solo la banca e i negozi, però, erano stati chiusi. La produzione aziendale ha continuato a tenere aperti i battenti e, con lei, più di tremila operai. Doveroso, ancora una volta, ricordare le reali condizioni in cui versavano queste persone, condizioni al limite del disumano. Si pensi, per esempio, alla paga che, per contratti di otto ore al giorno (diciotto ore in vista delle consegne), ammontava a trenta euro al mese. Si pensi alle prevaricazioni e ai ricatti a cui i dipendenti, spesso, dovevano sottostare in silenzio. Un ricatto, del resto, è stato complice di quest’ennesima strage: la struttura era inagibile, crepe profonde innervavano da giorni le pareti, ma i dirigenti delle ditte hanno minacciato i lavoratori di togliere loro paga e lavoro, se non si fossero presentati in fabbrica. I manager delle ditte in questione dovranno presentarsi alle autorità entro il 30 aprile, mentre Sohel Rana, il padrone del Plaza, è ora l’uomo più ricercato del Bangladesh. Dieci anni fa, partendo da un pezzo di terra acquitrinosa lasciatogli dal padre, Rana si impossessò del resto del terreno. Qui sorse il mastodonte a otto piani, crollato mercoledì scorso un’ora dopo l’inizio del primo turno di lavoro.
Bisogna dire che, in questa vicenda, le crepe non sono solo quelle sui muri: ce ne sono altre, molto più profonde. Crepe morali, che investono anche l’Occidente. Le imprese del Rana Plaza producevano, infatti, milioni di capi di abbigliamento all’anno per grandi (e piccoli) marchi occidentali. D’altro canto l’industria tessile, in Bangladesh, rappresenta più del 10% del Pil nazionale e circa l’80% delle esportazioni, per lo più negli Stati Uniti e in Europa. Anche questa volta, dall’estero, è giunta, puntuale, una raffica di condoglianze e dinieghi. Proclami per condizioni di lavoro migliori, intimati dalle aziende occidentali, che sembrano fatti apposta per salvare immagine e interessi. Interessi basilari per l’Occidente, dal momento che il Bangladesh, con quasi cinquemila fabbriche (che danno lavoro a oltre due milioni di persone), risulta essere il secondo esportatore al mondo di tessile dopo la Cina.
Ora la rabbia è esplosa. La polizia, oltre che cercare i responsabili (già arrestati diversi proprietari e ingegneri), deve arginare le proteste di coloro che sono scesi in piazza per gridare il proprio dolore e per rivendicare maggiori diritti. Ma la situazione è grave. Più di trecento i morti, più di settecento i dispersi. L’agenzia di stampa bengalese Bss afferma che oltre millequattrocento operai sono stati estratti vivi dai resti del Plaza, si teme che molti altri siano ancora intrappolati. I soccorritori stanno cercando di far arrivare acqua e cibo alle persone ancora bloccate (fra cui molte donne), in attesa di poterle estrarre dalle macerie: è una corsa contro il tempo.
Fra pochi giorni sarà il primo maggio. Si danzerà e si festeggerà. Si celebreranno valori come antifascismo e antirazzismo. Forse, però, si rifletterà su ciò che è accaduto in Bangladesh. Magari, interrogandosi sulla provenienza dei propri jeans, molte persone capiranno come il primo maggio, in diverse parti del mondo, sia ancora incapace di svincolarsi dall’ombra di Chicago. Un’ombra, purtroppo, greve e orribile.
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