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Diritto di critica | November 28, 2024

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Italia 2013, femminicidio in corso. Le donne che non vogliamo salvare

Italia 2013, femminicidio in corso. Le donne che non vogliamo salvare

violenza-donne-bambiniCentoventiquattro nel 2012, almeno dieci in questi primi sessantacinque giorni del 2013. Nel 2011 sono state centotrentasette. I numeri delle donne assassinate in Italia negli ultimi ventisei mesi sono tutti qui, sotto i nostri occhi, fuori dalla nostra porta di casa. Sono numeri che parlano di violenze quotidiane, di botte e calci, di occhi neri e braccia spezzate. Parlano di violenze sessuali subite nel silenzio di anni passati a raccontarsi un amore che non c’è, nella vergogna di farsi vedere per strada, nella solitudine a cui ci si condanna. È quella che Riccardo Iacona chiama la «strage delle donne» e di cui parla nel suo libro (poi diventato puntata di Report). Una strage di cui la politica, forte delle quote rosa, non osa parlare.

Omicidio, prima causa di morte per le giovani donne. È questo il femminicidio, la legge di cui nessun partito in campagna elettorale ha affrontato. Non è un termine usato a caso, né dispregiativo o classista: non c’entra niente la radice latina “femina” che indica l’animale di sesso femminile. Il termine nasce negli anni novanta grazie ad un gruppo di donne femministe che si trovarono a fare i conti con i dati dell’OMS (l’Organizzazione Mondiale della Sanità), dati che indicavano che la prima causa di morte nelle persone di sesso femminile tra i 16 e i 44 anni era l’omicidio. Anche qui numeri, numeri incontrovertibili che chiedevano di essere definiti, nominati. Ed ecco che allora quelle donne scelsero un nome, e quel nome fu, appunto, femminicidio.

Uccise perché donne. È stata una definizione politica la cui intenzione era quella di dare una visione di genere sui casi di omicidio neutri, permettendo in questo modo che il fenomeno diventasse visibile. Eppure, ancora oggi c’è chi sostiene che la visione di genere storpi la realtà, una realtà che vogliamo pensare uguale per tutti, in cui uomini e donne sono semplicemente persone di pari grado e, in quanto tali, devono essere considerate. Ma non è così. Femminicidio vuol dire uccidere una donna in quanto donna, toglierle la vita per il suo sesso. E non sono solo le conviventi e le compagne di vita ad essere uccise: chi commette femminicidio è anche il padre che ammazza la figlia, il figlio che ammazza la madre, il cliente della prostituta che, tacendo sulla propria malattia, la fa ammalare e poi morire di Aids.

Dal violento Messico all’Italia. C’è una città in Messico, al confine con gli Stati Uniti, in cui tutta questa orrenda tragedia ha assunto tratti di drammaticità prima inesplorati. Si tratta di Ciudad Juárez e qui, tra il 1993 e il 2006, sono state uccise 430 donne, mentre oltre 600 sono scomparse nel nulla. La battaglia per avere anche in Italia una legge sul femminicidio nasce qui, in questa terra in cui per anni malavita e Stato sono stati complici di questo terribile massacro, documentato grazie al lavoro del giornalista Sergio González Rodriguéz e pubblicato in Messico nel 2002 (in Italia nel 2006) in un libro tanto meraviglioso quanto angosciante dal titolo “Ossa nel deserto”. Testo da cui poi, sempre nel 2006, è stato tratto il film “Bordertown” con Jennifer Lopez e Antonio Banderas. Ed è stato proprio grazie al lavoro di Rodriguéz se le autorità internazionali hanno cominciato a porre una maggiore attenzione verso quello che succedeva a Ciudad Juárez anche se il vero cambiamento è arrivato quando, grazie ai gruppi di femministe e attiviste messicane, è stata eletta in Parlamento Marcela Lagarde, che ha istituito una Commissione Speciale Parlamentare sul femminicidio. La Commissione, servendosi del lavoro di ong e altre associazioni, in dieci anni ha portato all’approvazione di una legge che prevede nei codici penali il reato di femminicidio. È stato poi grazie alla sentenza “Campo Algodonero” della Corte Interamericana per i diritti umani che il Messico è stato condannato per aver violato il diritto alla vita di tre donne (quelle per cui la sentenza è stata emessa) anche attraverso indagini inadeguate. La stessa inadeguatezza di cui parla Rodriguéz nella sua opera. Ma quello che di più importante c’è in quella sentenza della Corte Interamericana è aver stabilito, dimostrandolo, che questa non è una caratteristica prettamente sudamericana ma riguarda anche gli altri paesi del mondo (infatti, la Corte fa riferimento alla Turchia del “Caso Opuz”), e quindi anche l’Italia.

L’Italia senza legge. Oggi in Italia non esiste alcuna legge che difenda le donne in quanto donne, perché non esiste alcuna cultura della diversità. Inoltre, la nostra è una società ancora patriarcale, uomocentrica, in cui il “no” della propria compagna, figlia, madre suona come un affronto personale che giustifica l’abuso di potere maschile verso chi quel “no” l’ha pronunciato. E la stampa gioca un ruolo centrale, come sempre, raccontando il femminicidio come un semplice “raptus” o un “omicidio passionale”. Non è così: non esiste passione o furia improvvisa nell’assassinio di una donna. Esiste, piuttosto, un’intenzione precisa e spesso figlia di anni di violenze domestiche.

Uccise nell’intimità. Nel Rapporto annuale della Casa delle donne di Bologna, che si serve prevalentemente di articoli di giornale e altre news poiché il Viminale non ha ancora stabilito un criterio per contare i femminicidi, si legge che il 60% delle volte l’omicidio avviene in una relazione intima; che nel 25% dei casi il rapporto sessuale o si era appena concluso o stava per iniziare; che il 63% degli omicidi avviene in casa, a volte anche sotto gli occhi di figli e parenti. Inoltre, secondo una stima approssimativa (difficilissima da definire in modo scientifico), quattro donne su dieci hanno subito violenze prima di essere uccise. Ma per ridurre questo dato, per tentare almeno di evitare la tragedia, spiegano nel Rapporto, “è necessario destinare risorse ai centri antiviolenza, rafforzare le reti di contrasto ad essa tra istituzioni e privato sociale qualificato, effettuare una corretta formazione di operatori sanitari, sociali e del diritto, perché sempre più donne possano sentirsi meno sole, possano superare la paura e divenire consapevoli che sconfiggere e sopravvivere alla violenza è possibile”.

Al futuro governo di questo Paese dobbiamo chiedere questo che le donne vengano tutelate per il loro essere donne, che l’acceso dibattito intorno alle quote rosa sia sostituito da quello ben più urgente su una legge sul femminicidio, che dei soldi vengano destinati ai centri antiviolenza e che nessuna donna debba più sentirsi sola in caso di pericolo. Questa dovrà essere necessariamente tra le priorità della prossima legislatura, affinché le 901 vittime dal 2005 ad oggi non aumentino. Affinché le donne, in questo Paese, siano finalmente libere anche di dire “no” senza temere di essere ammazzate.

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