Lincoln, il potere della parola
di Francesco Ruffinoni
Ci sono due tipi di uomini: quelli che cambiano la storia attraverso i mezzi che la società permette loro e quelli che trasformano la società nonostante i mezzi che la storia concede. Il Lincoln di Spielberg si trova nel mezzo, nella soglia incerta fra ciò che si possiede e ciò che si vuole. Fra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Piegato, fisicamente e moralmente, da una guerra civile sanguinosa e da un passato pieno di fantasmi, Abramo Lincoln (Daniel Day-Lewis) deve ora fronteggiare la battaglia più ardua, quella che richiederà maggior impegno: abolire la schiavitù. Come fare? Annullare la schiavitù significherebbe segnare la fine di una guerra estenuante e fratricida, ma una delegazione sudista potrebbe rendere velleitari gli sforzi del presidente: se il Sud accettasse la resa, il Congresso degli Stati Uniti non approverebbe un emendamento che azzererebbe un sistema secolare che si trova non solo alle radici dell’economia degli Stati Confederati ma, implicitamente, pure degli stati dell’Unione stessa.
È proprio da questo garbuglio che inizia l’odissea degli uomini del presidente, alla ricerca di voti comprabili e di persone corruttibili. Perché questa odissea? Perché il Lincoln di Steven Spielberg non agisce per mero calcolo strategico, ma perché è un profondo discepolo della libertà, quella libertà invocata dai Padri fondatori. Una libertà, il presidente ne è convinto, che deve essere estesa alla gente nera, con ogni mezzo possibile. Ma il film di Spielberg non si ferma alla dicotomia scontata fra ciò che è giusto e ciò che è necessario. La trama che il regista narra è, infatti, una storia sulla contraddizione. La contraddizione insita nell’animo umano, all’incessante ricerca di un equilibrio fra legge di Stato e legge di Natura, fra dovere civile e sentire morale. Uno scontro fra opposti, incarnato dalla stessa vita privata del presidente, combattuta fra la routine familiare e l’impegno civile. Proprio nello spacco tragico fra queste polarità emerge il Lincoln uomo che, prima di affrontare i problemi della politica, deve risolvere la grande sfida con se stesso e con il suo passato. Pesa, nel cuore del presidente, la morte del figlio, la paura di perderne un altro e, soprattutto, la figura tormentata della moglie Mary Todd (Sally Field), vittima di una grave depressione.
Come districare la matassa? Come scovare la scorciatoia? La parola, ancora una volta, sembra venire in soccorso all’Uomo e a Lincoln. Non per niente il presidente pare affrontare le asperità e gli enigmi della vita attraverso il raccontare, tramite la narrazione di aneddoti, novelle, citazioni che, puntualmente, sembrano deterritorializzare situazioni e problemi. In realtà, questo presidente cantastorie, riscopre nell’intreccio delle parole, l’intreccio del mondo, il senso dell’esistere e, quindi, una forma di salvezza ideale che lo separi dal caos del consorzio umano. Ma le parole non sono solo un ponte verso la salvezza, ma pure verso il potere. L’eloquenza stessa misura l’esercizio di questo potere, svelandone limiti e ombre.
Spielberg abbandona il visivo per il parlato e le parole del presidente pesano come macigni. La sceneggiatura, a cura del brillante Tony Kushner (Munich, 2005), è del resto ottima: curata nei minimi particolari, e priva di retorica yankee, risulta rinvigorita dalla magistrale interpretazione degli attori, fra i quali troviamo un esuberante Tommy Lee Jones. L’interpretazione più suggestiva, però, è quella dell’irlandese Daniel Day-Lewis (Gangs of New York, 2002), capace di dar vita a un Lincoln ironico, pacato, paterno e, a tratti, ieratico. Una figura del tramonto. Un uomo cosciente di come il potere usuri e di come, spesso, il fine giustifichi i mezzi.
Ma ciò che si ottiene compensa realmente il modo con cui lo si è ottenuto? Difficile dirlo. La Guerra di secessione americana fu un conflitto terribile, uno scontro fra giovani fratelli, sanguinoso e crudele: solo la Storia può avanzare un giudizio ultimo al riguardo. Ad un’America che, oggi più che mai, necessita di nuove guide e di eroi, Spielberg consegna un presidente sognatore, il Lincoln visionario che, persino nel dubbio più atroce, rammenta a se stesso, e a chi gli è caro, lo scopo della sua missione, della loro missione: la libertà. Del resto, lo stesso leader, parafrasando Melville, ama ricordare: «Siamo balenieri».
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