Quanti schiavi lavorano per te?
Quanti schiavi lavorano per noi? Nessuno, saremmo portati a dire. Molti, sosterrebbe invece il sito Slavery Footprint: molti di più di quanti sospettiamo. E a dimostrarlo anche ai più scettici sarebbe proprio l’applicazione web del sito, un questionario articolato in undici schede le cui domande spaziano tra tutti gli aspetti della nostra vita presunta slavery free – dal tipo di abitazione al numero dei figli, dagli accessori tecnologici ai capi d’abbigliamento, dall’alimentazione all’elettronica – e permettono di stabilire una cosa tanto facile da dimenticare quanto difficile da tollerare: il numero di esseri umani che nel mondo vengono sfruttati per garantire il nostro benessere. A nostra insaputa.
Secondo Slavery Footprint, per un italiano medio sono almeno un centinaio le persone schiavizzate nel mondo: un giro di sfruttamento che oggi coinvolge più di 27 milioni di esseri umani, molti dei quali bambini, e che non sembrerebbe destinato ad estinguersi in tempi brevi. Sebbene la schiavitù sia stata dichiarata illegale nel mondo con la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, essa in realtà continua ad essere una piaga difficile da guarire, resa sempre più grave da una società dei consumi che favorisce il proliferare di forme di sfruttamento del lavoro e della manodopera a basso, bassissimo costo. «Ogni oggetto della nostra quotidianità – ha spiegato Justin Dillon, responsabile di Slavery Footprint, al momento del lancio del sito e del questionario, circa un anno fa – viene realizzato sfruttando in maniera disumana e illegale manodopera a basso costo. E’ un fenomeno drammatico di cui bisogna ricordarsi quando si va a fare shopping e si acquista qualcosa». Il questionario copre infatti un ampio spettro di domande circa qualunque aspetto della vita quotidiana – hobby, viaggi, dotazione tecnologica, computer, ma anche vestiti e alimentazione – e al termine del sondaggio è possibile scaricare un’applicazione smartphone con la quale seguire in tempo reale l’impatto dei propri consumi: scopo del sito e del test è proprio quello di sensibilizzare il consumatore sulla realtà che si cela dietro i propri stili di vita, perché possa sentirsi coinvolto direttamente nella lotta agli sfruttamenti e agli abusi.
Slavery Footprint è un’organizzazione no-profit attiva da anni proprio nel tentativo di abolire la schiavitù dal mondo e collabora con l’ufficio del Dipartimento di Stato americano che monitora e combatte il traffico di persone. Una condizione, quella della schiavitù, che coinvolge in particolare i minori: secondo le statistiche dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), infatti, circa 115 bambini nel mondo svolgono lavori dannosi per la saluti o pericolosi, quali l’1,4 milione di bambini che lavorano nei campi di cotone dell’Uzbekistan o i 250mila impiegati nelle fabbriche di mattoni pakistane. Non solo: anche aspetti della vita quotidiana apparentemente innocui si basano su forme di sfruttamento, a partire dalla tecnologia (che necessita di coltan, superconduttore estratto nelle miniere congolesi in mano ai guerriglieri che alimentano una sanguinosa guerra civile) per arrivare infine all’alimentazione. E in quest’ultimo caso, non bisogna neanche allontanarsi troppo: i pomodori, le insalate, gli agrumi che raggiungono le nostre tavole sono spesso il frutto del caporalato, moderna schiavitù nostrana e spesso italianissima.