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Diritto di critica | November 24, 2024

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L'asso nella manica di Bersani e il tesoretto di Vendola che fa gola a tutti

L’ANALISI – Per vincere, domenica al ballottaggio, sia Renzi che Bersani avranno bisogno dei voti di Nichi Vendola. E ieri sera da Fabio Fazio, sempre più chierico del Pd, si è subito capito che l’aria che tira spira verso sinistra. Su Rai Tre si sono alternati prima Renzi e poi Bersani. Tra le cose che hanno detto, due possono essere prese a simbolo di quello che sarà l’avvicinamento al ballottaggio. Renzi ha parlato dell’Ilva e affermato che il dramma della contrapposizione lavoro-salute è l’esempio delle “privatizzazioni farlocche fatte in questo Paese”, mentre Bersani, imbeccato dal buon Fazio sulla visita fatta al paese natale di un grande socialista – ante-craxiano e partigiano (sei condanne, anche a morte, e due evasioni) – come Sandro Pertini, ha preso la palla al balzo e dissertato sulle implicazioni attuali del termine socialismo. A tratti, forse, potremo vedere una corsa per le primarie incentrata su temi che sembrano arrivare dritti dal passato.

Una vittoria non scontata. Certo, ad un primo sguardo sembrerebbe fatta per il segretario del Pd. È lui il più vicino a Vendola. Sia per tradizione, che per storia politica personale, è Bersani l’uomo che l’elettorato vendoliano dovrebbe votare. Ma i voti andati al leader di Sel potrebbero prendere anche la direzione meno scontata. In fondo, Renzi è pur sempre l’innovatore che vuole rottamare le facce arrabbiate di D’Alema e Bindi, di Marini e Finocchiaro, solo per citarne alcune.

Domenica sera il buonismo è stato imperante, con tutti i convenevoli di rito e la soddisfazione anche di coloro che hanno fatto da comparsa, prendendo a malapena il voto proprio e dei parenti. Adesso, però, dopo la felicità unanime per la ritrovata passione dei cittadini – quei quasi 4 milioni di voti testimonianza di una grande voglia di buona politica – dietro i sorrisi e i complimenti, si apre il rush finale e, in una parola, cambia tutto. In poche ore si conoscerà il vero volto dello scontro politico, fatto di astuzia, cinismo e convenienza.

Il tesoretto di Vendola. Pensava di prendere di più, Nichi Vendola, ma col suo 15% è comunque in grado di condizionare non poco il futuro della coalizione, a cominciare dal voto di domenica, e c’è da giurare che non svenderà il suo tesoretto senza stringere nulla– si parla di una candidatura per un incarico Ue – in cambio. Che sarebbe stato lui l’ago della bilancia, Bersani e Renzi l’avevano capito da molto tempo. E avevano iniziato per tempo una serie di manovre rivolte a questa eventualità.

Il primo a scattare è Renzi, che con Vendola ha avuto un rapporto teso, a tratti conflittuale. Il sindaco – che si conferma agilissimo nell’azione – ha provato e sta provando comunque a recuperare parte di quei consensi. Prima, diventando via via sempre più critico verso l’operato di Monti e poi, chiudendo le porte ad un altro governo tecnico e a coloro che sostengono – e si sostengono – dietro questa ipotesi: centristi e responsabili di varia provenienza.

No a Casini. E a dire il vero, in tal senso, un bel colpo Renzi lo ha piazzato con il no all’Udc di Casini, “nella nostra alleanza non ci deve stare Casini, penso che ci voglia chiarezza, si dice all’inizio e non alla fine da che parte si sta. Di Casini ne abbiamo già abbastanza di nostri“. Un bel colpo almeno per due motivi. I centristi sono nemici giurati di Sel, a cui si contrappongono praticamente su tutto, dai temi etici a quelli più strettamente politici, per non parlare di quelli economici. Nell’apertura del Pd a Sel, Casini ha sempre trovato il terreno fertile per il suo infinito temporeggiare.

La richiesta che l’Udc ha fatto a Bersani per giungere ad un’alleanza, è sempre stata quella di abbandonare Sel. Ma il segretario, in merito, si è sempre sottratto, muovendosi come un elefante sui cristalli per paura di perdere l’uno e l’altro, anche quando è divenuto via via palese che Casini difficilmente si sarebbe spostato verso il centrosinistra. Per un elettore di Sel, quindi, vedere che al genero di Caltagirone si decide finalmente di chiudere la porta in faccia, senza aspettare come manna dal cielo una sua apertura – che non arriva mai –, non può che aver fatto piacere.

Renzi al timone. La differenza tra il comportamento di Renzi e Bersani è evidente. L’impostazione in questo è diversissima, Renzi attacca, decide di non subire i tatticismi di Casini, il suo flirtare con tutti senza concedersi a nessuno, salvo donarsi a Mario Monti, perfezione assoluta e insostituibile, a cui il leader centrista è pronto a delegare, con “responsabilità”, la guida del Paese.

Monti e Casini sono diventati strada facendo il simbolo di ciò che Renzi non vuole, “chi vince governa”. In questo Bersani è dietro. Per il segretario Pd, infatti, il discorso alleanze va affrontato con cautela, “ ..senza essere settari” e soprattutto, ripete, “restiamo aperti ai moderati”. Secondo Bersani l’agenda Monti va corretta con più istruzione, più lavoro, al massimo più moralità, ma non stravolta. Mentre sul professore – che Renzi vedrebbe bene al Quirinale – è più possibilista, definendolo una “..personalità che può essere utile al Pese, che non credo possa tornare alla Bocconi, anche se non voglio prendere impegni, ne parleremo con lui”.

L’asso nella manica di Bersani: il lavoro. Un sicuro asso nella manica per convincere gli elettori di Sel a votarlo al ballottaggio, però, Bersani ce l’ha. Ed è il tema caldo di questa crisi: il lavoro. È il lavoro ed il legame ombelicale col sindacato rosso, la Cgil – ancor più irrinunciabile visto il discredito attuale dei partiti -, il punto che più di tutti lega il Pd a Sel. Bersani non ne ha fatto mistero, con Vendola “..è chiaro, nelle cose che dico, che ci sono evidenti punti di assonanza e convergenza”, ad esempio, nella “centralità del lavoro e la precarietà”.

L’endorsment della Camusso. A rafforzare il legame e a chiudere il cerchio in maniera pressochè definitiva, è arrivata anche l’investitura, con esplicita dichiarazione di voto in suo favore, fatta da Susanna Camusso, durante in Mezz’ora, di Lucia Annunziata (una volta andrebbe studiato anche il modo in cui Renzi ha scosso alle fondamenta il mondo del giornalismo legato al Pd e al centrosinistra), che ha del clamoroso. Che il leader del sindacato più importante entri in scivolata, in piena tornata elettorale, per regalare un vantaggio enorme al segretario del partito, è un fatto su cui riflettere attentamente. Non foss’altro perché testimonia l’apprensione che sta generando una possibile affermazione del sindaco fiorentino.

Le parole di Camusso pesano come un macigno: “le tragedie non ci sono mai, soprattutto davanti al voto democratico, ma se vincesse Renzi sarebbe un problema perché le sue proposte sono molto distanti da noi”, ha detto il segretario della Cgil, non mancando di aggiungere, “ho votato Bersani”. Una bomba tirata contro Renzi, già percepito come: parvenu, borghesotto di stampo cattolico, uomo di destra e cavallo di troia del centrosinistra, che piace a Berlusconi. Uno che agli inizi del progetto Fabbrica Italia tifava Marchionne, molto più vicino al liberalismo che alla socialdemocrazia, sempre a sbandierare il suo giovanilismo sorridente alla “amici miei”. Uno che da ragazzino non frequentava né sezioni, né biblioteche, ma andava da Mike Bongiorno alla “Ruota della fortuna”; un Renzi così, che la Camusso definisce come “un problema”, ha quasi un piede nella fossa.

Ma, specie in politica, non è mai detta l’ultima. La sfida finale è appena cominciata e può concludersi in tutti i modi. Forse, addirittura, con una rovinosa spaccatura del partito.