Libia, il dramma dimenticato dei migranti
La guerra aveva contribuito a portare sulle prime pagine dei giornali europei il dramma di migliaia di profughi eritrei, somali, sudanesi che si sono ritrovati in Libia tra l’incudine e il martello, tra le milizie armate che li arruolavano a forza e i ribelli che li ricercavano perché ritenuti mercenari. Ma la compassione è a tempo determinato, i riflettori si spostano altrove e in Libia la situazione non è cambiata. Anzi. A riportare l’attenzione sul dramma silenzioso dei profughi nel Paese nordafricano è Amnesty International, che nell’ultimo rapporto “Siamo stranieri, non abbiamo alcun diritto” denuncia come i cittadini stranieri privi di documenti di soggiorno rischino sfruttamento, detenzioni arbitrarie e a tempo indeterminato, pestaggi e anche tortura.
Il rapporto si basa su una serie di visite effettuate tra maggio e settembre dagli attivisti di Amnesty International in Libia a seguito del crollo del regime di Gheddafi e testimonia come la situazione di queste persone, già precaria e incerta durante la dittatura del colonnello, non sia migliorata negli ultimi mesi: l’organizzazione denuncia infatti il clima generale di assenza di legalità, in cui le milizie armate possono continuare ad agire indisturbate senza che le autorità facciano nulla per impedire il diffondersi di atteggiamenti razzisti e xenofobi. «E’ una vergogna – ha affermato la vicedirettrice del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International, Hassiba Hadj Sahraoui – che le violazioni dei diritti umani dell’epoca di Gheddafi ai danni dei cittadini stranieri, specialmente quelli di origine sub sahariana, non solo non siano perseguite ma siano persino peggiorate. Le autorità libiche devono riconoscere quanto siano gravi e diffuse le azioni delle milizie e prendere misure per proteggere tutti i cittadini stranieri dalla violenza e dagli abusi, a prescindere dalla loro origine o dal loro status».
Si tratterebbe soprattutto di uomini e donne provenienti da Paesi quali Ciad, Eritrea, Etiopia, Somalia e Sudan, che nonostante i rischi continuano ad attraversare i permeabili confini libici alla ricerca di sicurezza e di una via di fuga da guerre, persecuzioni e povertà endemica: pur essendo quindi persone che avrebbero diritto alla protezione internazionale, la distinzione tra migranti, richiedenti asilo e rifugiati non è messa in atto dalla milizie armate e gli arresti sono in larga parte completamente arbitrari. Amnesty International ha evidenziato come queste persone vengano arrestate a casa, in strada, nei mercati, oppure mentre cercano di imbarcarsi per l’Europa o di attraversare il deserto; non solo: esse sarebbero inoltre sottoposte all’estorsione, allo sfruttamento e ai lavori forzati anche all’interno dei centri di “trattenimento” per migranti irregolari, detenuti per “reati d’immigrazione” e sottoposti – secondo quando verificato dall’ong internazionale – a torture e pestaggi. Un rischio al quale, nel caso di detenute di sesso femminile, si aggiunge quello della violenza sessuale e di genere. La percezione diffusa tra i libici che il governo di Gheddafi abbia usato a suo tempo migranti sub sahariani come mercenari per stroncare le rivolte non favorisce un clima di collaborazione tra la popolazione locale.
Nel caso di richiedenti asilo e rifugiati, inoltre, in Libia essi non trovano alcun tipo di protezione legale: il Paese nordafricano infatti è privo di un sistema d’asilo funzionante e non è parte della convenzione Onu del 1951 sullo status dei rifugiati. Non solo: la Libia si rifiuta di firmare un memorandum d’intesa con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, né ha aderito al protocollo aggiuntivo del 1967 alla Convenzione. Una situazione di limbo legale, dunque, che impedisce la salvaguardia minima di persone senza alcuna possibilità di denunciare l’illegittimità della propria detenzione e dell’espulsione forzata e che tuttavia non ha impedito all’Unione Europea di riaprire il dialogo con la Libia sulle questioni relative al problema immigrazione, né all’Italia di firmare un nuovo accordo per “contrastare i flussi di migranti” nell’aprile 2012.