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Diritto di critica | November 22, 2024

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Il falso mito della decrescita. Ecco perché la crisi italiana non nasce a Wall Street

Decrescita. In poche parole “tornare indietro”. Dove? Nella mitica età dell’oro che in Italia non si sa bene quale sia. Forse quella del boom economico degli anni Sessanta, con le sue lotte sindacali, con un televisore e, forse, un’automobile o una lambretta ogni famiglia. Oppure tornare indietro ai “ricchi” anni Ottanta, tra Drive In e i baby pensionati.

Decrescere. Tornare indietro, forse ancora più indietro, magari alla società contadina tanto mitizzata dal fascismo ma profondamente povera. È questo quello che i profeti di una nuova economia chiedono. Almeno rimanendo al significato etimologico del termine “decrescita”. Cioè far calare il Pil, il quale non deve più essere considerato come indicatore di benessere. Eppure, questo vituperato Pil il benessere lo produce eccome, anche se magari non può essere l’unico strumento per valutare la qualità della vita di un popolo. Infatti, l’economista Rawls, con la sua teoria della giustizia, spiega come l’assetto distributivo delle ricchezze sia giusto quando è equo. Quindi, insieme al Pil è l’equità il secondo paramentro che valuta il benessere di un popolo. Ma senza Pil o con un Pil “in decrescita”, non può esserci equità. E lo dimostra la situazione economica italiana attuale, dove aumenta il numero di “ricchi” e contemporaneamente quello dei più poveri, soprattutto giovani e precari.

Affondiamo, ma non per colpa di Wall Street. Il vero problema dell’Italia sono gli italiani, altro che la grande finanza, la Bce e gli speculatori, checché ne dicano i profeti della nuova economia. Un paese poco credibile è un paese debole. E la crisi del debito nasce da qui. E la colpa è solo nostra perché abbiamo permesso alla classe politica di affrontare problemi strutturali con soluzioni temporanee e scorrette. Abbiamo aiutato le aziende, non competitive, attraverso la svalutazione della Lira e abbiamo sperperato il denaro pubblico ingenerando debito. Per questo ora ci troviamo con aziende deboli (più deboli di prima visto che non si può più svalutare) e con un debito pubblico senza precedenti. Mentre nulla o quasi è stato fatto per semplificare le norme, abbassare il costo del lavoro e rendere il mercato del lavoro uniformemente più flessibile (non come oggi in cui ci sono lavoratori di serie A e quelli di serie B). In parole povere, non siamo riusciti a ridare competitività al’azienda Italia. E la Bce, Wall Street e la grande finanza poco c’entrano. Anzi, l’Euro sarebbe potuto essere il giusto incentivo per cambiare con politiche finalmente virtuose e di lungo periodo. Non si è fatto quando l’economia arrancava ma continuava a crescere, si prova a farlo oggi ma con enorme fatica.

Come tornare a crescere? Per ricominciare a crescere e ridurre le diseguaglianze sociali, in primo luogo bisogna ridare centralità al lavoro. Ridurre la tassazione su chi produce, incrementarla su qualsiasi forma di rendita. Questo va accompagnato ad una netta semplificazione normativa. Non è possibile che Ikea a Roma si debba lamentare della lentezza burocratica per le autorizzazioni relative alla realizzazione di una terza sede a Roma. Poi, bisogna ridare spazio ai giovani: defiscalizzazioni o incentivi per fare impresa. Il tutto deve essere accompagnato da una decisa lotta alla corruzione e all’evasione fiscale. L’Italia è uno dei paesi più corrotti d’Europa e questo di certo non favorisce l’investitore straniero che vede questo aspetto come un costo per la propria attività. Mentre la lotta all’evasione fiscale è il primo modo di creare equità in questo Paese. E, sempre in termini di equità, va distrutto una volta per sempre questo welfare iniquo e ricostruito daccapo. Sì ai sussidi di disoccupazione per tutti, no alla cassa integrazione che protegge solo alcuni lavoratori e che spesso viene impiegata dalle aziende inefficienti per sopravvivere. Basta con l’abuso di contratti a progetto, stage e false partite Iva. Abbiamo bisogno di un contratto unico nazionale che abbia forme di protezione crescenti con il tempo.

Comments

  1. Emilio

    C’è un pallido riferimento alla mancanza di onestà che appare troppo celato come filo conduttore dell’articolo. “Dare centralità al lavoro” è riferisrsi a un metodo ma non puntare verso l’obiettivo che, invece, dovrebbe essere il “benessere” (fra virgolette perché troppo profrondamente argomentabile per essere capito a fondo). Notare che nella costituzione dovrebbe proprio comparire al posto della parola “lavoro” (PRIMO articolo) dal quale deriverebbe gran parte dell’impostazione generale che prevedrebbe, fra le altre cose, l’insegnamento dell’onestà sin dall’asilo, oltre allo sfruttamento delle buone tecnologie, impostazioni e procedure per una vita molto più sana e, perché no, rurale.
    In fin dei conti l’argomento “decrescita” potrebbe dire molto di più, essere sviluppato meglio e far capire più a fondo anche i risvolti di questa società se la comunicazione fosse onesta e si tendesse davvero al benessere.

    Senza una potente base di onestà e un adulto obiettivo di benessere, i vari metodi proposti sono quasi sempre il falso obiettivo che molti caparbiamente indicano e verso i quali troppi, cretinamente, guardano.

  2. ErPanfi

    Quoto in pieno il post di Emilio, qui sotto.

    Aggiungo, inoltre, che se il nostro fabbisogno di risorse necessario per crescita e/o mantenimento è troppo alto una decrescita cosciente e controllata è sicuramente da preferire ad una decrescita incontrollata

  3. franco

    Prima di parlare di decrescita bisogna conoscerla. Non si tratta di indietreggiare, tutt’altro, progredire non crescere a qualunque prezzo. Cerchiamo ancora di risolvere i nostri problemi usando i mezzi che li hanno creati. Finchè non diventeremo sobri e consapevoli saremo in crisi.

  4. Massimo Fogo

    Sono confuso… a parte che non capisco ancora oggi per quale stravagante ragione il PIL viene considerato il misuratore di qualcosa?
    Non misura assolutamente nulla, somma “mele e patate” e non da la misura di nulla. Facciamo un esempio, investiamo X euro per costruire un bellissimo ospedale in, diciamo, 10 anni. Bene il PIL è influenzato positivamente x 10 anni (e questo ospedale non ha nemmeno cominciato a funzionare). Quando sarà terminato smetterà di avere direttamente impatto sul PIL (lo potranno avere i medici, gli infermieri etc. ma non l’ospedale di per se); per assurdo non ha importanza se questo bellissimo ospedale è stato costruito in mezzo al nulla o in una selva dove non arrivano mezzi pubblici, dove non ci sono parcheggi nei dintorni, dove non ci sono strade dimensionate sul traffico che questo comporta. Il PIL è cresciuto x 10 anni a fronte di.. quali benefici? Gli stipendi degli operai e delle aziende del cemento?
    Se l’ospedale viene abbandonato e ne viene costruito un altro si ha di nuovo un effetto benefico sul PIL, ma non sul benessere o sui servizi, quindi, ditemi perchè continuate a parlare di PIL???