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Diritto di critica | November 24, 2024

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Monti, lo Statuto e i disoccupati. Che paese vogliamo?

Monti, lo Statuto e i disoccupati. Che paese vogliamo?

Quell’articolo 18 proprio non gli va giù. “Lo Statuto dei lavoratori ha fatto aumentare la disoccupazione”, ha dichiarato Mario Monti giovedì scorso. Parole pesanti come macigni che hanno sollevato la reazione stizzita di sindacati e centro-sinistra. Ma il premier, da bravo economista, non ha detto nulla di nuovo. E soprattutto Monti non ha detto nulla di falso. È sufficiente prendere in mano qualsiasi manuale di economia politica per capire con un grafico come qualsiasi irrigidimento del mercato del lavoro produce un innalzamento del tasso di disoccupazione.

Senza regole i deboli soccombono. Il problema, però, è un altro. Al di là delle crisi economiche che in maniera fisiologica fanno aumentare il tasso di disoccupazione e fanno contrarre gli stipendi, la domanda che ci dobbiamo porre, di fronte alle parole del premier, è un’altra: che paese vogliamo. Un’Italia senza norme sul lavoro oggi sarebbe un paese economicamente più efficiente, ma nel quale i cittadini sarebbero tutti – giovani di 25 anni e anziani di 60-65 anni – in competizione per accaparrarsi un posto di lavoro. Un’asta a ribasso che inciderebbe in primo luogo su chi oggi è meno efficiente (cioè chi si avvicina all’età della pensione), i portatori di handicap e in parte anche le donne. Persone che a loro volta si ritroverebbero in mezzo ad una strada nei periodi di crisi oppure dovrebbero accontentarsi di stipendi minimi. Insomma, una soluzione per i giovani, un danno per i loro padri.

I giovani senza Statuto. Tuttavia, è altrettanto vero che oggi lo Statuto dei lavoratori protegge un numero sempre più esiguo di persone, mentre l’articolo 18 oramai serve solo per dare valore a lotte sindacali e a chiacchiere politiche. Rimangono fuori da qualsiasi tipo di tutela i precari, in gran parte giovani con meno di 35 anni; i lavoratori più produttivi che vivono con contratti a tempo e con stipendi da fame. Un paradosso, se è vero – come ripetono gli economisti – che lo stipendio dovrebbe essere commisurato alla produttività. Per questo ha ragione la Fornero quando propone di anticipare il picco della retribuzione da fine carriera a 40-45 anni, come avviene per esempio in Gran Bretagna.

Quel (maledetto) dualismo tra lavoratori. Oggi ci ritroviamo con lavoratori di serie A e lavoratori di serie B, i primi ipergarantiti, i secondi iperprecari. Ma come siamo arrivati a tutto questo? Il motivo è di una semplicità sconcertante. Già nei primi anni novanta l’economia si avviava verso la globalizzazione e vari settori industriali iniziavano ad avvertire la concorrenza straniera e la possibilità di delocalizzare la produttività in Europa dell’Est. Già dal 1985 il tasso di disoccupazione era salito sopra l’8%, nonostante un periodo economicamente florido per il nostro paese. Fino al 1992 oscillava tra l’8 e il 10% per poi raggiungere il picco dell’11,5% del 1998. Sotto la pressione sociale e soprattutto sotto la pressione dei poteri industriali, la politica prese una decisione che ha cambiato il volto del mercato del lavoro italiano: la flessibilità. Non si trattò di riformare lo Statuto dei lavoratori alleggerendo magari alcune rigidità (al tempo c’era un governo di centro-sinistra che certamente non poteva mettersi contro i sindacati), ma di aggiungere nuove figure contrattuali. Un pastrocchio che ha provocato una frattura definitiva tra chi ha un posto fisso e chi arranca tra un lavoro e un altro, senza tutele di orario, senza contratti nazionali, senza diritto a sussidi di disoccupazione o di maternità. Un errore strategico nato dall’incapacità della politica di decidere per paura di scontentare qualcuno.

Nuove protezioni per tutti. Il pacchetto Treu del 1997 e la legge Biagi del 2003 hanno avuto l’effetto concreto di abbassare il tasso di disoccupazione che nel 2007 ha toccato il minimo storico (5,8%). Ma poi è arrivata la crisi. La disoccupazione ha iniziato a risalire. E qui sono venuti al pettine i nodi di questo iniquo e ingiusto dualismo del mercato del lavoro. Oggi la disoccupazione ha raggiunto il 10,7%. Ma chi è andato a rimpolpare le fila dei senza lavoro in Italia? Principalmente giovani precari (36,2% senza lavoro oggi). Allora, prima di parlare di Statuto dei lavoratori, frutto di lotte sindacali quando gli imprenditori erano padroni e gli operai erano proletari, forse sarebbe meglio capire quale paese vogliamo. Se vogliamo un’Italia più equa ma anche più competitiva si riformi lo Statuto dei lavori (non lo si abolisca), ripartendo dai principi che esprime ma guardando in faccia la realtà. Meno rigidità ma uno statuto che tuteli tutti i lavoratori, con un contratto unico nazionale.

Twitter: @PaoloRibichini

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