Stati Uniti, quando la pena di morte è ‘‘nera’’ - Diritto di critica
Il vento della rivoluzione sta iniziando a soffiare nelle aule di giustizia statunitensi, una brezza destinata a scardinare antichi pregiudizi e storiche sentenze. Molti studi hanno dimostrato, negli ultimi decenni, come vi sia una significativa polarizzazione razziale nell’amministrazione della pena di morte. Gli imputati di pelle nera, secondo gli esperti, hanno, tuttora, maggiori probabilità di essere condannati alla pena capitale rispetto ai bianchi. L’aggravante sta, poi, nell’uccidere persone di pelle bianca. E in quel caso, i casi di condanna aumentano rispettano a equivalenti omicidi compiuti su vittime di pelle nera.
Un riferimento bibliografico è dato da un’inchiesta di David Baldus, dal titolo “Discriminazione razziale e pena di morte”, dove sono illustrate connessioni tra il colore della pelle e l’incidenza nelle condanne. Inoltre, uno studio di Jennifer Eberhardt sottolinea l’influenza dei tratti fisionomici degli imputati, tipica delle persone di pelle nera (naso largo, labbra grosse), sulla giuria. Coloro che posseggono tali caratteristiche, sostiene la studiosa, hanno il doppio delle possibilità di essere condannati a morte. La Corte Suprema, in occasione della sentenza ‘McClesky-Kemp’ nel 1987, rifiutò di prendere in seria considerazione tale ipotesi, condannando a morte Warren McCleskey per rapina a mano armata e omicidio. Uno studio, prodotto dal team legale dell’imputato, dimostrò la diseguaglianza razziale nei casi di omicidio di bianchi da parte dei neri, in misura quattro volte superiore alla media. Il tribunale respinse l’appello McClesky con una motivazione che lasciò molto perplessi: “Le disparità, in caso di condanna, sono una parte inevitabile del nostro sistema giudiziario. Se c’è stato razzismo nella sentenza, abbiamo commesso un errore, ma è un dato di fatto”.
La sentenza, definita una delle più inique dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, fu equiparata a quella di ‘Dred Scott’ che nel 1857 diede sostanza giuridica alla schiavitù degli afroamericani e a quella di ‘Plessy vs Ferguson’, nel 1896, sulla segregazione razziale. Già Cesare Lombroso, alla fine dell’800, teorizzò la connessione tra comportamento criminale e caratteristiche anatomiche della persona. Tuttavia, nell’ultima parte della sua vita lo studioso affiancò alle connotazioni fisiche anche quelle ambientali, educative e sociali. Dal caso di McClesky in poi, i giudici non hanno più permesso alla difesa di mostrare studi sui pregiudizi razziali, nei casi di condanna a morte. I ‘Racial Justice Act’, approvati negli stati del Kentucky nel 1998 e in North Carolina nel 2009 proibiscono di condannare un imputato alla pena di morte sulla base della razza. Al massimo, la pena può essere commutata in ergastolo senza la condizionale.
Nello specifico, la pronuncia del North Carolina consente di identificare, da parte del giudice, i tipi di prova alla base di un’eventuale valutazione per criteri di razza. L’accusa, dal canto suo, potrà costituire prove per smontare le tesi della difesa. Negli ultimi tre anni, quasi tutti i condannati a morte hanno cominciato a impugnare le proprie sentenze. Il primo è stato il 38enne Reymond Marcus Robinson, condannato alla pena capitale per l’omicidio di un ragazzo di 17 anni al quale aveva rubato una macchina e 27 dollari. La giuria, che pronunciò la condanna a morte, era composta da nove bianchi, due neri e un indiano d’America in una contea costituita al 40% da persone di pelle nera. Robinson è ancora in vita, la sua condanna è stata commutata in ergastolo perché i suoi legali sono riusciti a dimostrare che la questione della razza poteva essere un elemento discriminante nella composizione della giuria. Una commissione composta da persone di varia provenienza, infatti, è fondamentale per combattere gli stereotipi e ottenere giustizia.