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Diritto di critica | November 25, 2024

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Voleva farsi esplodere a Washington, così funziona la rete dell'FBI - Diritto di critica

Voleva farsi esplodere a Washington, così funziona la rete dell’FBI

di Giovanni Giacalone

Lo scorso venerdì agenti dell’FBI hanno bloccato e arrestato un presunto terrorista suicida mentre si dirigeva verso il Palazzo del Congresso a Washington D.C.

Il ventinovenne marocchino Sidi Mohamed Amine El Khalifi è stato fermato attorno a mezzogiorno in un parcheggio di Constitution Avenue, a pochi isolati dal Capitol Hill, con addosso un giubbotto esplosivo e una mitraglietta, pronto a sparare sulla folla e a farsi saltare in aria. Il potenziale attentatore non era evidentemente al corrente che esplosivo ed arma, entrambi inutilizzabili in quanto non-funzionanti, gli erano stati forniti da quei compagni di cellula che credeva membri di Al-Qaeda ma che erano in realtà agenti federali e lo tenevano da tempo sotto stretta sorveglianza.

El Khalifi era giunto negli Stati Uniti nel giugno 1999, con visto turistico B2, assieme ai suoi genitori; si sarebbero inizialmente stabiliti a Kissimmee, in Florida e solo successivamente si sarebbero trasferiti ad Arlington, Viriginia, dove Ek Khalifi avrebbe saltuariamente svolto lavoretti occasionali.

Nonostante El Khalifi non abbia mai fatto nulla per regolarizzare la propria posizione di immigrato clandestino, non si può certo dire che abbia cercato di nascondere la propria presenza alle autorità e sarebbe stato fermato più volte per possesso di marijuana e violazioni del codice stradale.

Nel 2010 El Khalifi sarebbe stato segnalato alla polizia dal suo padrone di casa in Virginia, Frank Dynda il quale, oltre ad aver riferito agli agenti di essere stato minacciato di pestaggio, ha anche segnalato la presenza di misteriosi pacchi indirizzati al suo inquilino. Un inquilino dai modi ostili e sospettosi”, che affermava  di essere un commerciante di valigie, anche se di valigie, a giudicare dal padrone di casa, non se ne sono mai viste.

Nonostante tutto ciò la polizia avrebbe intimato a Dynda di smettere di infastidire El Khalifi in quanto non vi erano motivi validi per perseguirlo.

Venerdì scorso, prima del tentato attacco, El Khalifi si sarebbe recato a pregare alla moschea Dar Al-Hijrah, a Falls Church, Virginia. L’imam Johari Abdul Malik sarebbe stato messo al corrente della presenza dell’uomo solo successivamente, con una telefonata dell’FBI che, paradossalmente, lo rassicurava spiegando come l’attentatore non fosse frequentatore abituale della moschea. L’imam avrebbe anche offerto all’FBI di fornire i filmati delle telecamere di sorveglianza.

Non è chiaro come El Khalifi sia finito nei radar dell’FBI, ma si parla di un incontro a gennaio del 2011 quando il soggetto si sarebbe visto con due uomini della cellula, in realtà agenti federali,  muniti di un fucile AK-47, di due pistole e munizioni. In quell’occasione El Khalifi avrebbe affermato che la guerra al terrorismo era in realtà una guerra ai musulmani, e che dunque era necessario prepararsi.

Successivamente sarebbe stato introdotto a un finto membro della cellula dal soprannome “Yusaf”, in realtà un agente, a cui avrebbe dichiarato di voler compiere un attentato, inizialmente parlando di una sparatoria a un ristorante di Washington D.C. frequentato da militari e di un attacco a una sinagoga o un altro palazzo a Alexandria; per poi cambiare piano e orientarsi su un attacco suicida con una bomba.

Il potenziale attentatore si sarebbe anche recato con i finti membri della cellula presso una cava per testare i detonatori.

La mattina dell’attentato El Khalifi sarebbe stato portato nel centro di Washington D.C. dallo stesso “Yusaf”, il quale gli avrebbe anche fornito il giubbotto esplosivo e una mitraglietta leggera Ingram Mac-10, entrambi non funzionanti. Poco dopo, l’arresto.

Amine El Khalifi è accusato di tentato utilizzo di armi di distruzione di massa contro proprietà degli Stati Uniti. Gli investigatori sembrano comunque concordare sul fatto che il soggetto abbia pianificato tutto da solo e non abbia alcun legame con Al-Qaeda; nonostante ciò viene ritenuto pericoloso per i cittadini statunitensi e rischia l’ergastolo.

A questo punto viene da chiedersi in primis come sia possibile che un immigrato clandestino, certamente noto alle autorità, sia riuscito ad eludere i controlli sull’immigrazione per ben tredici anni, in un paese con leggi estremamente severe al riguardo.

C’è poi da domandarsi per quale motivo la polizia non abbia dato peso alle segnalazioni dell’ex padrone di casa dell’attentatore, nel 2010.

Oltretutto che senso ha monitorare per tutto questo tempo un singolo individuo che, seppur ideologicamente incline all’estremismo, a detta degli inquirenti risulta comunque privo di legami con organizzazioni terroristiche; fino ad arrivare al punto di mettere in piedi una finta cellula, fornire il sospetto con armi inutilizzabili e condurlo a mettere in atto un attacco. E’ possibile che un potenziale pericoloso terrorista non si sia neanche accorto che esplosivo e mitraglietta non fossero funzionanti?

E’ vero che i “terroristi solitari” sono un incubo per gli investigatori in quanto riescono ad imparare da soli come maneggiare esplosivi e armi, magari attraverso appositi siti internet, eludendo i controlli dei servizi di sicurezza che tengono sotto controllo le reti terroristiche. Sembrerebbe però che questa volta la “fase formativa” sia stata fornita direttamente dall’FBI.

Comments

  1. Questa è la tecnica della provocazione antica come il mondo: i black bloc
    che infestano le manifestazioni ne sono un altro esempio evidente.