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Diritto di critica | November 16, 2024

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Egitto, un anno dopo - Diritto di critica

Egitto, un anno dopo

dai nostri inviati Monica Hanna e Daniele Salvoldi

Il 1 febbraio dopo una partita di calcio fra la squadra di Port Said e il club cairota dell’Ahly, 74 persone sono morte durante scontri senza precedenti. Duramente criticata la polizia che non sarebbe intervenuta e avrebbe addirittura favorito il contatto fra le due tifoserie. Attribuire ai soli ultras la colpa di quanto è successo a Port Said è pura ingenuità, significa cadere nella trappola dei media organizzata dal Supremo Consiglio delle Forze Armate (SCAF), che ha preso il posto di Mubarak dall’11 febbraio scorso. Molti testimoni parlano di “baltagheya”, teppaglia, infiltrata fra i tifosi del Port Said e pronta a scatenare l’inferno. Fra le vittime degli ultras dell’Ahly anche ragazzi di 14 anni. A un anno di distanza dalla caduta di Mubarak, l’Egitto è ancora lontano dalla stabilità.

I tifosi dell’Ahly sono ritenuti la seconda forza organizzata del paese, dopo i Fratelli Musulmani che hanno guadagnato la maggioranza nelle recenti elezioni parlamentari. Dall’inizio della rivoluzione sono sempre stati anti-Mubarak e – dopo le sue dimissioni – anti-SCAF. L’anno scorso si erano distinti nella difesa di piazza Tahrir stracolma di manifestanti, schierandosi contro gli abitanti del villaggio di Nazlet Simman che avevano invaso la piazza in sella ad asini, cavalli e cammelli e armati di bastoni e lame, in quella che è entrata nella storia della rivoluzione come “Battaglia dei Cammelli”. Non è un caso che la violenza si sia abbattuta su di loro, al termine di una partita dove gli slogan politici contro il regime erano molti e dove il Port Said – con una storica vittoria di 3 a 1 – non aveva ragione di essere particolarmente violento contro gli avversari sconfitti. Alcuni dei “baltaghy” catturati dalla gente dopo le violenze hanno confessato di essere stati pagati da agenti di Gamal Mubarak, figlio del presidente cacciato dalla rivoluzione e allora candidato alla successione del padre.

La violenza degli ultimi giorni di gennaio 2011 sembra dunque essersi reimpossessata dell’Egitto. Come un anno fa, le forze di polizia si sono ritirate per fare spazio a “baltaghy” violenti e senza scrupoli. La gente si è di nuovo organizzata in ronde private nei quartieri. Il regime vuole il caos per applicare il pugno di ferro. Dopotutto lo scorso anno Mubarak disse: “Io o il caos”.

Le fazioni e il processo a Mubarak – Il Paese, nel frattempo, è diviso in diverse fazioni. Vi sono i “felul”, coloro che rimpiangono il regime di Mubarak, la sua relativa tranquillità e sicurezza. Si tratta di egiziani apatici disinteressati alla rivoluzione, molti copti terrorizzati dalla situazione nel Paese, persone che vedono ridotti i guadagni delle loro attività a causa dell’instabilità e molti stranieri residenti in Egitto, nonché una parte della comunità scientifica internazionale che vede così minacciata la propria attività di scavo e ricerca in Egitto. Ci sono le persone favorevoli alla rivoluzione, ma che ora sono stanche delle proteste e vedono con fiducia la transizione del potere dallo SCAF a un governo civile, promessa per il 30 giugno prossimo. Vi sono infine i giovani rivoluzionari, che hanno ben chiaro che la rivoluzione non è che appena cominciata.

Il processo-farsa celebrato contro Mubarak e la sua famiglia è rallentato a dismisura. La condanna sembra certa, almeno per non “tradire” una rivoluzione altrimenti già ampiamente dirottata dai militari. La moglie dell’ex-presidente, Suzanne Mubarak, ha ancora a disposizione personale di servizio composto da 500 persone. Siede in diversi consigli direttivi delle sue fondazioni “caritatevoli” che, attraverso corruzione e cattiva gestione dei fondi, riciclano denaro e sono ritenute responsabili del furto di diversi milioni di lire egiziane. La Guardia Presidenziale ancora è in servizio presso Mubarak e la sua famiglia.

Occupy Maspero, invece, è un nuovo movimento fondato per rovesciare il controllo dello Stato sui media (la tv di stato ha sede in Maspero, una strada sul Nilo dedicata al grande egittologo francese). L’anno scorso la coraggiosa anchor Shahira Amin della televisione Nile TV si licenziò in diretta, interrompendo le trasmissioni con la frase: “Mi rifiuto di essere un’ipocrita”. Altri giornalisti si sono aggiunti alla protesta, ma la stampa e la televisione di Stato continuano a celebrare i militari e a nascondere la verità: Maspero fu il primo edificio occupato dall’esercito durante i diciotto giorni della rivoluzione del 2011. Pochi giorni fa la diretta televisiva è stata bruscamente interrotta quando il discorso di un deputato nel neo-eletto parlamento ha virato sulla gestione del potere da parte dei militari, affermando che “il posto dello SCAF è la galera”.

Il vero volto dei militari – I media di Stato hanno anche mascherato con disinvoltura le violenze all’Institut d’Egypte lo scorso 17 dicembre. Una testimone racconta: “sono accorsa subito quando ho saputo dell’incendio. Mentre studiosi e gente comune erano impegnati a salvare i libri dell’Istituto, i militari ci bersagliavano con sassi e ceramica stampigliata col logo del parlamento, gettata dal tetto dell’edificio. Sono stata colpita. Per permettere agli altri attivisti di portar via i libri ho gridato a un soldato che era nelle vicinanze che ero un ricercatore universitario a Berlino e che se non avessero smesso di bersagliarci avrei pubblicato la sua foto su tutti i giornali d’Europa per smascherare il gioco sporco dello SCAF. Si è dileguato in un lampo”.

Ha fatto il giro del mondo, poi, l’immagine della ragazza egiziana a cui i militari hanno strappato il velo e che, esposta nel suo ormai simbolico reggiseno azzurro, è stata presa a calci. I militari scesi in campo il 28 gennaio 2011 per “proteggere” i civili, acclamati come difensori della rivoluzione, hanno tolto la maschera. “L’incidente di ‘Maspero” (sempre dal nome della sede della tv di stato), dove decine di persone, prevalentemente copti, sono state uccise da blindati guidati dai militari, ha anche scosso l’opinione pubblica (laddove raggiunta). I militari hanno fatto circolare versioni manipolate della verità, tacciando pacifici manifestanti di azioni violente e persino arrivando a ridicolizzarsi col dire che “i soldati hanno perso il controllo dei veicoli perché spaventati dalla folla”. E nuove e inevitabili polemiche sulla giunta militare sono piovute dopo le sconcertanti affermazioni del Generale Kato: “Il posto dei manifestanti sono i forni di Hitler”.

Nonostante le forze della controrivoluzione siano al potere cercando di mascherare la loro vera identità, centinaia di migliaia di egiziani continuano a dimostrare scontento per la situazione. Il nuovo parlamento delude molti, anche fra gli islamisti; la situazione è decisamente caotica. Tanti fra gli egiziani hanno colto la contraddizione di un parlamento e un governo insediati senza una nuova costituzione: il primo eletto dal popolo, il secondo nominato dallo SCAF e senza avere necessariamente la fiducia del parlamento. Tanti temono che la nuova Carta sarà orientata secondo le ideologie estremiste dei Fratelli Musulmani e, peggio ancora, dei Salafiti. Sebbene i media egiziani siano pieni di riferimenti ad una “agenda” straniera – gli Americani o gli Israeliani finanzierebbero il caos in Egitto – gli unici finanziamenti noti sono quelli del Qatar ai Fratelli Musulmani e dell’Arabia Saudita ai Salafiti, nonché l’enorme cifra di 1,3 miliardi di dollari nelle mani dei militari sotto forma di rifornimenti da parte degli Stati Uniti d’America. Nel frattempo, l’ex-direttore generale dell’Agenzia Atomica Internazionale e premio Nobel per la Pace Muhammad el-Baradei ha ritirato la sua candidatura per le elezioni presidenziali; un forte gesto di denuncia contro il regime dello SCAF. El-Baradei, di orientamento liberale, una delle poche voci contro il regime di Mubarak, aveva già offerto generosamente di rinunciare alle presidenziali per guidare un governo di transizione. Offerta ovviamente ignorata dallo SCAF.

Una nuova mentalità – Quello che conta di più, però, è che la mentalità degli egiziani è cambiata radicalmente. Non solo al Cairo, ma anche nelle città periferiche e in molti villaggi: la politica è ora il primo argomento che interessa i cittadini. Nonostante la faziosità dei media, il senso critico si è acuito, la gente nei caffé e nei taxi esprime dissenso nei confronti dello SCAF, del Governo o del parlamento senza più paura. Dimostrazioni, anche piccole, sono segnalate in molte città (ad esempio a Luxor e Esna), organizzate da diversi sindacati, lavoratori, attivisti. La grande marcia delle donne al Cairo lo scorso dicembre è stato un evento partecipatissimo e coraggioso. I tribunali sono intasati di denunce: chi nel proprio ambiente di lavoro è stato vittima o testimone di soprusi, corruzione e cattiva gestione adesso denuncia gli abusi. L’attivo supporto rivoluzionario dell’Università di al-Azhar (la maggiore istituzione sunnita di tutto il mondo islamico), che ha visto uno dei suoi sheikh morire durante le proteste pacifiche contro lo SCAF, si è rivelato sorprendente e netto. Anche molti sacerdoti copti e di altre confessioni cristiane sostengono le proteste della popolazione. Contemporaneamente i giovani copti si stanno affrancando dalla propria chiesa, retta dall’anziano papa Shenuda III (in carica dal 1971), accusata di essere troppo accondiscendente nei confronti del regime. In occasione del Natale ortodosso, il 7 gennaio scorso, papa Shenuda ha pubblicamente ringraziato i vertici militari presenti alla cerimonia nella cattedrale di Abbaseya: gli attivisti hanno cominciato a gridare a gran voce “Abbasso lo SCAF!”. Uno sciopero di disobbedienza civile è stato annunciato a partire dall’11 febbraio, anniversario delle dimissioni di Mubarak, ad oltranza fino alle dimissioni dello SCAF. L’Università Americana, Ain Shams, Nile University e altri quattro istituti universitari hanno già aderito.

Nessuno può prevedere il destino di un paese agitato da forti tensioni sociali e religiose, dove molti elementi contribuiscono a delineare il paesaggio politico e dove i modelli offerti da Tunisia, Turchia, Pakistan e Iran non sembrano potersi applicare, anche e soprattutto a causa di un percorso storico radicalmente diverso.