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Diritto di critica | November 22, 2024

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J. Edgar, ritratto da Oscar di un piccolo grande uomo d'America - Diritto di critica

J. Edgar, ritratto da Oscar di un piccolo grande uomo d’America

Pochi attori riescono, durante la proiezione di un film, a far scordare al pubblico il loro nome e ai critici i commenti sulla loro bravura, per lasciare sullo schermo solo il personaggio. Leonardo di Caprio è uno di questi. Per le due ore di “J. Edgar” c’è solo Hoover, nudo e crudo, magistralmente tratteggiato e guidato dalla regia di Clint Eastwood.

La pellicola attraversa la storia d’America dagli anni Venti fino ai Sessanta, un’America vista con gli occhi ormai anziani del creatore dell’FBI, che raccontando le sue memorie destinate alla pubblicazione si ostina nell’adulazione di sé stesso e ripercorre tutte le sue battaglie, dalla lotta al movimento anarchico, alla caccia ai gangster degli anni Trenta fino alle agitazioni sociali dell’era Kennedy.

J. Edgar Hoover fu direttore della polizia federale per oltre quarant’anni, paladino delle impronte digitali, degli archivi centrali nei quali schedare i malviventi e precursore degli odierni metodi scientifici di indagine. Ebbe in mano sin da giovanissimo grossi poteri, arrivando fino a far tremare il presidente Nixon; per questo fu accusato spesso di servirsi in maniera indebita di intercettazioni e microspie.

Il film, narrato per la verità con un ritmo ambivalente (rapidi rivolgimenti si alternano a lunghi flashback), lascia andare velocemente i fatti storici e si concentra sul mondo manicheo di Hoover e sulla sua ossessione: proteggere l’America dai nemici.

È la mossa geniale di Eastwood: il permettere a Di Caprio, ingrassato a dovere e con le lenti a contatto nere, di primeggiare ed addentrarsi nel fisico e nella mente di Edgar, intorno al quale ruotano le figure della madre (Judy Dench), della fedele segretaria (Naomi Watts) e del vice Tolson, suo braccio destro e probabilmente compagno di vita.

Ai nostri occhi europei Hoover incarna alla perfezione l’auto-celebrazione e la tendenza alla megalomania tipicamente americana, ma dietro alla risolutezza e ai successi del suo Federal Bureau of Investigation si cela un’anima fragile e repressa, che balbetta quando gli si avvicina una donna e che compensa l’assenza di una vita sociale con la crociata ossessiva contro il crimine e i cospiratori degli Stati Uniti. Per Edgar sono tutti uguali: radicali, comunisti, bolscevichi, mafiosi e membri del Ku Klux Klan, perfino Martin Luther King. Non importa chi sia o meno un carnefice: la vittima è sempre e comunque l’America.

Hoover è tanto severo, irreprensibile, talvolta violento nei metodi sul lavoro, quanto debole e complessato a casa, succube di una madre troppo ingombrante che si rivela incapace di fargli esprimere ed accettare la sua latente omosessualità. Una vittima della morale conservatrice che pervade tutto il racconto di una vita uniformata al perbenismo statunitense dell’epoca.

La malinconia traspare dalle scene finali del film. Malinconia che non risiede nell’immagine dei due compagni Hoover e Tolson ormai anziani, ma nell’ostinazione di Edgar a volere fino all’ultimo alito di vita salvare l’America e far sapere che è stato lui a farlo. Del resto, come tutti gli eroi o quelli che si sentono tali, egli non accetta la vecchiaia e il passare del tempo, e il fatto che il suo Paese possa andare avanti anche senza di lui.