A difesa di Giovanni - Diritto di critica
Puntare il dito nel nostro Paese è da sempre lo sport preferito da molti. Troppi. Quando però a farlo sono colleghi giornalisti, la questione diventa imbarazzante. La nostra categoria, infatti, dovrebbe avere la capacità di vagliare, di andare al di là dell’urlo e degli scoop faciloni. Troppo spesso, invece, questo in Italia non accade. E lo si è visto all’Aquila, con frotte di colleghi pronti a carpire ogni minimo singulto dei parenti delle vittime. Lo si è visto in tante altre occasioni. Sempre troppe. L’ultima ieri.
Forse a causa della poca brodaglia berlusconiana ormai sul mercato, un quotidiano ha pensato bene di realizzare un presunto scoop andando a riempire la paginetta con la storia di un ragazzo accusato di omicidio volontario e poi condannato per colposo (di per sé già questo è già un assurdo, ma il giornale se ne dimentica) che ha comunque pagato con diversi anni di carcere il suo debito con la giustizia (si dice sempre così) e adesso insegna in un liceo, con tutto il diritto – perché di questo si tratta – a rifarsi una vita.
A sottolineare la pochezza dello scoop – degno della miglior macchina del fango berlusconiana – è anche la tempistica che mette in evidenza come – caduto Silvio Berlusconi – il quotidiano in questione non sappia davvero dove sbattere la testa: il giornalista, infatti, non ha scovato la sua vittima all’inizio dell’anno scolastico – come sarebbe stato naturale e giornalisticamente vincente – no, l’ha stanato quasi sotto Natale. E mi credano gli autori dello “scoop”, di questa “notizia” erano a conoscenza molti altri colleghi e da mesi (compreso chi sta scrivendo).
Tutti i vari moralisti sull’unghia si sono a quel punto scatenati senza riflettere che il professore in questione – giova ripeterlo ai più che puntano il dito senza pensare – ha pagato il proprio debito con la giustizia e la scuola in cui insegna – la stessa in cui per un breve periodo studiò la ragazza che lui avrebbe ucciso – non l’ha certo scelta lui, la decisione attiene il provveditorato. Ma in Italia, si sa, quando qualcuno suona il flauto, in molti seguono. E così è stato anche questa volta, con una non-notizia sbattuta in pagina e i cronisti che entravano nell’aula in cui il professore – ignaro di tutto – stava svolgendo un consiglio di classe.
Ma torniamo un attimo al giornale in questione. Per completezza della notizia avrebbe dovuto quantomeno ricordare la dinamica della vicenda accertata dal verdetto finale: due ragazzi stanno maneggiando una pistola vicino al davanzale di una finestra di un dipartimento della Sapienza. Il davanzale è largo e la finestra è quasi completamente occupata da un condizionatore (è ancora lì, ndr). Uno dei due – il professore ieri su tutti i giornali – pistola in mano, spara. Gli studenti dirimpetto la finestra, seduti sulla scala antincendio di un’altra facoltà non vedono nulla. Ma soprattutto non reagiscono le persone che si trovano all’interno dell’aula da cui – secondo gli inquirenti – sarebbe partito il colpo. Almeno una di loro, infatti, vede distintamente la scena ma nessuno reagisce. Non un urlo, non un gesto per fermare l’assassino e il suo complice. Niente. Così come nulla accade nei giorni successivi quando gli inquirenti cercano di individuare la mano che aveva ferito a morte una giovane studentessa.
Prima che le indagini arrivino ai presenti quel giorno in quell’aula passeranno oltre dieci giorni. E quei testimoni – una volta individuati – non vengono denunciati per concorso in omicidio né per favoreggiamento. Ancor meno per omessa denuncia: almeno uno di loro avrebbe visto una persona sparare ma nessuno avrebbe tentato di fermarli.
Il quotidiano in questione – nel suo presunto scoop – dimentica tutto e scrive invece che “durante le indagini furono utilizzate tecnologie estremamente sofisticate per stabilire con certezza il punto di origine del colpo di pistola che colpì e uccise la giovane studentessa”. Tanto sofisticate da venir smentite dalla perizia richiesta dalla Corte – che diede ragione alla difesa – e da un primo pronunciamento di Cassazione (storica la requisitoria del pm Geraci) che rimandò l’intero incartamento processuale al mittente e ordinò un nuovo processo. Il tutto poi si chiuse con una condanna incomprensibile vista la gravità del fatto: omicidio colposo.
Ai giornalisti che hanno realizzato il suddetto scoop e a chi gliel’ha approvato in pagina, infine, torno a ricordare un principio sacrosanto: chi ha pagato il suo debito di carcere con la giustizia, ha il diritto di rifarsi una vita e insegnare se lo Stato, le leggi e i magistrati tanto osannati glielo permettono. Voi, invece, avete il dovere di fare il vostro lavoro in modo deontologico, senza torturare fantasmi e sofferenze.
APPROFONDIMENTI:
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marta russo è morta per mano di qualche idiota, gli idioti sono in carcere…chi rompe paga e non pagheranno mai abbastanza…r.i.p. Marta e rispetto per i tuoi genitori
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Trovo fuori luogo e quantomeno vacuo questo articolo. Chi lo ha scritto soffre della stessa mancanza di argomentazioni della quale accusa i propri colleghi giornalisti.
Voglio aggiungere poi, che codesto articolo non suscita in me alcun tipo di indignazione verso chi ha enfatizzato lo scandalo, ma riesce invece a farmi rivivere quel disgusto dimenticato per quel fatto di cronaca ormai archiviato e il disprezzo provato verso i suoi insulsi protagonisti. Quei due figlioletti di Papá cullati dall’ambiente universitario che giocavano con una pistola carica in un luogo pubblico,e che invece di essere sbattuti in galera con un poderoso calcio nel culo a scontare un meritato ergastolo, vennero privilegiati del beneficio del dubbio. Seguirono poi costose perizie a loro volta screditate da altre costose perizie.
Ci sarebbe invece un debito di chiarezza mai risolto verso Marta Russo, e a distanza di tempo qualcuno dovrebbe spiegare al Paese intero chi e` veramente Giovanni Scattone e perché i raccomandati abbiano licenza di uccidere.
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