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Diritto di critica | December 18, 2024

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La Cambogia processa gli ultimi compagni di Pol Pot - Diritto di critica

La Cambogia processa gli ultimi compagni di Pol Pot


Il numero due del regime di Pol Pot, Nuon Chea

Gli ultimi rimasti hanno quasi novant’anni, ma se è vero che la giustizia deve arrivare, prima o poi, anche una condanna esemplare può servire, eccome. La Cambogia vive in diretta Tv la resa dei conti con il regime autoritario di Pol Pot, che tra il 1975 e il 1979 cambiò per sempre la storia del Paese asiatico.

È iniziato in questi giorni il processo contro tre alti dirigenti dell’epoca, che appaiono oggi come tranquilli vecchietti reduci da una passeggiata nel parco. La capitale Phnom Penh è mobilitata in attesa della sorte di Nuon Chea, 85 anni, braccio destro del dittatore Pol Pot (morto nel 1998); Khieu Samphan, 80 anni, ex capo di Stato del partito comunista “Kampucea Democraticà”, roccaforte dei Khmer rossi (così si chiamavano i suoi esponenti). Infine Ieng Sary, 86 anni, l’allora ministro degli Esteri. I tre sono accusati di genocidio, crimini contro l’umanità, persecuzione religiosa, omicidio e tortura. Una quarta imputata, Yeng Thirith, moglie di Sary, è impossibilitata a partecipare al processo perché gravemente malata.

Fino ad ora solo tre leader della macchina di morte di Pol Pot hanno pagato davanti alla giustizia cambogiana con il carcere per i loro crimini; molti altri hanno goduto di un’amnistia ad hoc per motivi politici e di ordine pubblico.

La vertenza è passata poi nelle mani del Tribunale Internazionale, che già nel 2010 ha condannato a 30 anni di prigione Kaing Guek Eay, alias il “compagno Duch”, responsabile del tristemente noto centro di torture S-21, dove morirono 15 mila persone.

Il regime cambogiano, in nome di un comunismo esasperato e deviato, ha causato una delle tragedie umanitarie più gravi della storia. Oltre due milioni di persone, quasi un quarto dell’intera popolazione della Cambogia, persero la vita vittime di carestia, deportazioni e lavoro forzato.

Un’enorme collettivizzazione forzata che si è consumata in pochi anni: abolita la proprietà privata e le libere professioni, milioni di cambogiani furono mandati a lavorare in comuni rurali con l’obiettivo di raggiungere una produttività spaventosa (la quantità di riso richiesta, per esempio, era il triplo della produzione normale) e la totale statalizzazione dell’economia. Interi gruppi di persone (per esempio i burocrati, i “borghesi” e moltissimi intellettuali) furono torturati e uccisi con l’accusa di voler minare il nuovo Stato. Uno Stato isolato dal resto del mondo, senza più ospedali, scuole, relazioni private o svaghi, invaso e sconfitto solo dalle bombe del vicino Vietnam, alle soglie degli anni Ottanta.

«Il partito comunista di Kampuchea trasformò la Cambogia in un immenso campo di schiavi – ha detto il procuratore nazionale di Phnom Penh, Chea Leang – imponendo a un’intera popolazione un sistema che ancora oggi è difficile da comprendere».

Secondo il procuratore internazionale Andrew Cayley, i tre dirigenti non potevano non essere complici nel disegno scellerato di Pol Pot: «Gli accusati non possono sostenere in modo credibile che non sapessero o non avessero il controllo sui crimini commessi», spiega.

Dopo le tesi di accusa e difesa, il 5 dicembre prossimo cominceranno le udienze per ascoltare le testimonianze raccolte sul periodo più buio della Cambogia.