Il giorno della verità. Ma il Cav potrebbe resistere ancora - Diritto di critica
Sarebbe troppo banale ridurre tutto ad un problema di lealtà. Berlusconi non è Giulio Cesare, e i congiurati non lo pugnaleranno alla schiena. Lo dicono da giorni, qualcuno da mesi: “avanti così non si può andare”. Eppure il Cavaliere non vuole capire e non si arrende. Non ammette di aver perso e non per colpa dei “golpe” della magistratura o dei “comunisti”. Il responsabile del fallimento è solo lui. Ma guai a parlare di crisi. I ristoranti sono pieni, ma le casse dello Stato sono vuote. E con i ristoranti non si risolleva l’economia, non si evita di dover dichiarare bancarotta, oggi che per la Ue il “Problema Italia” è più grande del “Problema Grecia”.
La maggioranza che non c’è. Non sappiamo se oggi Berlusconi avrà ancora una volta la maggioranza in Parlamento. Ma dopo la fuoriuscita addirittura della fedelissima Carlucci (preoccupata probabilmente di garantirsi un posto nella prossima legislatura), il Cav potrà al massimo riuscire a strappare una maggioranza di cartapesta. Uno, al massimo due voti di vantaggio, che non gli consentiranno di governare. Tuttavia, considerando i nuovi transfughi verso l’Udc e i “malpancisti”, alla Camera il governo otterrebbe il sicuro appoggio solo di 304 deputati, ben al di sotto della soglia minima di 316.
Cadere sul Rendiconto? Le opposizioni stanno preparando la trappola. Oggi, con il voto alla Camera sul Rendiconto dello Stato, già bocciato un mese fa, molti nodi (parlamentari) verranno al pettine. Pd, Idv, Udc, Rutelli e Fli si asterranno. In questo modo sarà possibile l’approvazione del Rendiconto, fondamentale per dare un’iniezione di fiducia ai mercati, ma, allo stesso tempo, i “malpancisti” saranno più liberi di votare contro il governo.
Resistere fino al maxiemendamento. Se Berlusconi non avrà la maggioranza tecnicamente non sarà obbligato alle dimissioni. Quindi oggi non è detto che dopo il voto salirà al Colle. Considerando il suo carattere combattivo, potrebbe tentare il tutto per tutto in Senato nei prossimi giorni sul voto al maxiemendamento sul quale il governo dovrebbe porre la fiducia. Usiamo il condizionale visto che nella serata di ieri Franco Frattini ha auspicato un confronto con l’opposizione sul maxiemendamento, senza fiducia.
Continuare a (non) governare. In ogni modo, il ciclo berlusconiano è giunto a conclusione. Il governo potrà anche arrivare a Natale o a gennaio (quando arriverà la prescrizione per il Cav nel processo Mills) magari con un’iniezione di nuovi sottosegretari, ma non avrà governato. Una responsabilità enorme di fronte a una situazione gravissima che può seriamente spingere l’Italia nel baratro.
Letta, il fedelissimo. E dopo? Se il Cav si dimetterà oggi o nei prossimi giorni, si fa concreta la possibilità di un governo di larghe intese. Mario Monti appare in pole position, ma a destra si fa spazio insistentemente il nome di Gianni Letta. Intorno a Letta, il problema principale rimane l’Udc. Il fedelissimo di Berlusconi troverebbe l’appoggio di tutto il Pdl e della Lega. L’Udc è disposto a votargli la fiducia a patto che il Pdl non metta veti alla partecipazione del Partito democratico all’esecutivo. Cosa che, come rivelato ieri da Franco Bechis, vicedirettore di Libero, sarebbe piuttosto difficile.
Monti, l’economista. Mario Monti, invece, troverebbe l’appoggio di tutte le opposizioni, ma non della Lega e del Pdl. Nessuna speranza, quindi, per ottenere un governo autorevole in grado di fare le riforme più urgenti e di dimostrare credibilità ai mercati. Ma Monti probabilmente riuscirebbe a trovare l’appoggio di una ventina di parlamentari del Pdl che creerebbero, secondo indiscrezioni, un gruppo parlamentare autonomo. Lo stesso Beppe Pisanu ha ieri dichiarato di essere disposto a votare la sfiducia se le opposizioni si impegneranno a trovare una soluzione che punti “alla nascita di un governo di unità nazionale”.
Elezioni pericolose. Se non si dovesse trovare l’accordo sul nome, a Giorgio Napolitano non resterà che sciogliere le Camere. Ma le elezioni non ci saranno prima di gennaio. Almeno due mesi e mezzo di passione che il Paese potrebbe non sopportare. E dopo il voto? L’incertezza. Potrebbe non emergere una maggioranza chiara al Senato.