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Diritto di critica | November 21, 2024

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Dopo Gheddafi, la corsa dei "liberatori" ai giacimenti petroliferi inesplorati - Diritto di critica

Dopo Gheddafi, la corsa dei “liberatori” ai giacimenti petroliferi inesplorati

È l’ora di spartirsi la torta. In Libia è ripresa la produzione petrolifera. Il 20 ottobre scorso la prima petroliera ha lasciato il porto di Es-Sider, nei pressi di Sirte, ex roccaforte di Gheddafi, destinazione Stati Uniti. Un doppio messaggio chiaro per tutti: la guerra è finita e la Libia ha nuovi “amici” che ora saranno ripagati per l’aiuto.

Ripartono le forniture di petrolio. Il governo libico guarda inaspettatamente oltreoceano anche se la guerra della Nato è stata combattuta soprattutto dagli europei: francesi, inglesi ed italiani in testa. Forse anche un modo per svincolarsi dalle diatribe neo-coloniali tra gli italiani e i cugini d’oltralpe sorte per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi e di gas.

La corsa all’oro (nero). In ogni modo, si ricomincia. E la ripartenza sarà una vera e propria rincorsa ad accaparrarsi risorse inutilizzate pari a 47 miliardi di barili di greggio. Così, immediatamente dopo il viaggio della prima petroliera verso gli Usa con l’oro nero estratto dalla Waha, di proprietà libico-americana (i soci statunitensi sono la ConocoPhillips, Marathon e Amerada Hess), ecco che la Exxon, la Chevron e l’Occidental Petroleum hanno annunciato ingenti investimenti sul territorio del paese nordafricano. Altrettanto hanno annunciato le britanniche Bp (tristemente nota per il disastro ecologico nel golfo del Messico) e Shell, la spagnola Repsol e ovviamente i francesi di Total.

L’Italia c’è, per ora. E l’Italia? Non per merito del governo, la situazione è meno complessa e difficile di quanto si potesse pensare. È la stessa Eni a rassicurare gli italiani per bocca di Claudio Descalzi, capo esplorazione e produzione dell’ente fondato da Enrico Mattei, in un’intervista rilasciata ad Affari e Finanza di Repubblica. “Entro la fine di dicembre contiamo di riattivare gran parte della fornitura di gas verso l’Italia, soprattutto grazie al ripristino e alla riaccensione della piattaforma Sabratha”, spiega Descalzi. “Contiamo entro fine dicembre di arrivare a 18-20 milioni (di metri cubi di gas al giorno – ndr), cioè poco meno dell’attività a regime, pre-crisi, che era di 24 milioni”, conclude il rappresentante di Eni. In pratica il nostro Paese è in pole position nella ripartenza, con molte infrastrutture già in grado di funzionare, come il gasdotto Greenstream. Inoltre, l’Eni si è garantita un futuro in Libia dimostrando, diversamente dal governo, coraggio nella scelta dell’interlocutore libico. Infatti, la società italiana ha iniziato a prendere contatti con le autorità di Bengasi già nei prime settimane del conflitto. Una scommessa che ha ora pagato. Lo stesso non vale per le altre imprese italiane che si trovano a confrontarsi con agguerriti contendenti, soprattutto nel campo della ricostruzione post-bellica.

Risorse sottoutilizzate”. L’isolamento della Libia dovuta a decenni di regime e di sanzioni internazionali, ha provocato una sottoutilizzazione delle proprie risorse. Il Center for Global Energy Studies di Londra stima che sotto il territorio libico ci siano più di 47 miliardi di barili di greggio e una quantità enorme ma non definibile di gas naturale. Un vantaggio per un’Europa bisognosa di energia, un vantaggio per i libici, se il governo avrà a cuore gli interessi del paese, allontanando lo spettro della corruzione.

Due problemi: la sicurezza e le super-tasse. Tuttavia, prima che le compagnie petrolifere decidano di investire in maniera massiccia in Libia, sarà necessario risolvere il problema “sicurezza”. In tutto il paese c’è un numero indefinito di depositi abbandonati di munizioni. Ma ciò che preoccupa maggiormente gli investitori sono migliaia di bazooka spariti nel nulla e che possono rappresentare una concreta minaccia per la sicurezza degli operatori occidentali. Oltre al problema “sicurezza”, c’è anche quello della tassazione. Infatti, il regime di Gheddafi inseriva nei contratti con le compagnie occidentali pesanti clausole economiche, come la tassa del 93% sul valore del petrolio o del gas estratto, che di fatto hanno mortificato il potenziale produttivo del Paese. Così le compagnie chiedono al nuovo governo di rivedere queste clausole adeguandole a quelle di altri paesi dell’area.