Afghanistan, la battaglia delle donne: “In tv per riconquistare i nostri diritti” - Diritto di critica
Cinema, programmi televisivi, soap opera in cui poter diventare protagoniste e documentare la loro vita. Per la prima volta, le donne afghane si raccontano e combattono per la propria libertà attraverso i mezzi d’informazione. Ma la loro battaglia resta difficile, in un paese in cui i casi di violenza sono in aumento e i diritti economici restano inesistenti.
“I segreti di questa casa” è la prima soap della tv afghana, prodotta per Tolo Tv. Una scommessa del fondatore dell’emittente, Saad Mohseni, noto come il “Murdoch di Kabul”, per promuovere la necessità di un cambiamento culturale nel suo paese: per questo, senza mezzi termini, qualche anno fa aveva accusato il presidente Karzai di voler vietare le soap opere indiane, a causa degli eccessivi idoli indù e delle donne troppo svestite. La risposta di Mohseni non si era fatta attendere: via le statue e le attrici seminude, ma la programmazione non si tocca. Anzi, visto che in Afghanistan l’80% di chi possiede un televisore guarda le soap indiane, perché non realizzarne una afghana? Attraverso i personaggi de I segreti di questa casa, Kabul parla a se stessa e di se stessa, cercando di far riflettere sulla reale possibilità di rinnovamento: speranza ancora maggiore, dato che secondo la Altai consulting di Kabul, il 50% circa degli afghani guarda la tv e Tolo Tv raggiungerebbe il 45% di quel pubblico.
La lotta per i propri diritti acquista visibilità grazie ai media. Una battaglia portata avanti, nei mesi scorsi, anche con la trasmissione “Niqab”: nello studio televisivo solo una donna (spesso sotto i 18 anni) col volto coperto da una maschera e un intervistatore. Così, le storie più tragiche passano per il piccolo schermo, arrivano nelle case, come il racconto di una 13enne, venduta dalla sua famiglia per 1000 dollari e poi torturata dal marito e dai parenti. “Usiamo queste vite come esempio – spiega la 28enne Sami Mahdi, ideatrice del programma -: sono sicura che, così, qualcosa può cambiare nella vita delle altre donne e nella mentalità degli uomini afghani”.
Lo scorso aprile, le donne afghane si sono raccontate in cinque documentari all’Oberdan, in una minirassegna organizzata dalla Cineteca e dall’associazione Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afghane). Tra i titoli, “Sguardo da un granello di sabbia”, girato tra il 2002 e il 2006 da Meena Nanji e premiato in vari festival: le storie di tre donne, un medico, un’insegnante e un’attivista per i diritti umani, tra Kabul e i campi profughi del Pakistan.
Qualche tempo fa, due giovani registe afghane, Roya e Alka Sadat, avevano lanciato un’importante sfida: la fondazione di “un’associazione al femminile, attraverso cui proiettare documentari e raccogliere testimonianze di donne da tutto il mondo che lottano per i propri diritti, cercando di proporre un modello per le donne in Afghanistan”. Qui, molte torture non vengono alla luce, come ha spiegato Roya, “perché la maggior parte della popolazione non può accedere neanche ai giornali. Per questo, il cinema è il mezzo ideale per informare”. Dai cinema di Kabul però le donne continuano a essere escluse, ammesse solo come attrici di soap opera: per questo motivo, le due registe hanno pensato alla realizzazione di una vera e propria “Casa della Cultura”, in cui le donne possano essere dietro la macchina da presa e documentare la propria vita.
I mezzi d’informazione diventano l’unico strumento per far conoscere le violenze subite, in continuo aumento. Secondo i dati dell’AIHRC (Afghanistan Independent Human Rights Commission) l’anno scorso ci sono state 2765 segnalazioni di casi di violenza contro donne e ragazze: tra questi, 144 auto-immolazioni, 261 tentativi di suicidio, 237 matrimoni forzati, 538 episodi di percosse e 45 omicidi. I sociologi evidenziano che le auto-immolazioni sono più frequenti tra le donne profughe tornate a Herat, dopo essere state in Iran, dove le condizioni di vita sono decisamente migliori. Il commissario dell’AIHRC Nader Naderi ritiene che l’inadeguato accesso alla giustizia sia la causa principale dell’aumento della violenza: “finché non verranno applicate le leggi fondamentali, questo flagello non potrà essere eliminato. È necessario che anche nelle scuole religiose si insegni il rispetto per le donne”. L’organizzazione non governativa Women and Children Legal Research Foundation dichiara che il 59% dei matrimoni sono forzati: di questi, il 30% è composto da quelli di “scambio”, in cui gli uomini barattano le proprie figlie e le altre ragazze della famiglia come “merce da matrimonio”. Secondo un sondaggio della Thomson Reuters Foundation, l’Afghanistan è al primo posto tra i paesi in cui le donne corrono maggiori rischi, dallo scarso accesso alle strutture sanitarie e dalla mancanza di diritti economici agli stupri, tratta di esseri umani e violenze in generale.