Image Image Image Image Image Image Image Image Image Image

Diritto di critica | December 22, 2024

Scroll to top

Top

Kirghizistan al collasso, Rosa mendica aiuti a Washington e Mosca - Diritto di critica

Kirghizistan al collasso, Rosa mendica aiuti a Washington e Mosca

Il Kirghizistan chiede agli Stati Uniti (e alla Russia) aiuto finanziario per “difendere i propri confini”. Ma la vera angoscia di Bishkek è la carestia: il paese è alla fame a causa dell’impennata del prezzo del grano, potrebbe esplodere una nuova insurrezione popolare a meno di un anno dalla precedente. Così il “Great Game” post-guerra fredda riprende nel segno della povertà.

C’è fame nelle strade di Bishkek. Secondo l’Organizzazione per il Cibo e l’Agricoltura delle Nazioni Unite ha indicato il paese come “uno dei più colpiti dall’impennata dei prezzi alimentari“. A causa della rivoluzione del giugno scorso, il raccolto è stato pessimo, appena 813mila tonnellate di grano immagazzinate contro un fabbisogno minimo di 1,3 milioni di tonnellate all’anno. E sono ormai esaurite. Comprare all’estero è un suicidio, purtroppo inevitabile: dal giugno 2010 il prezzo del grano è salito del 54% sui mercati mondiali , e la Russia – primo fornitore di Bishkek – ha bloccato le esportazioni per gli incendi dell’estate scorsa.

Tutto ciò si traduce in fame e malcontento per le strade della capitale kirghiza, ancora segnata dalle ferite degli scontri interetnici dell’anno scorso. Il governo guidato da Almazbek Atambaiev non sa che pesci pigliare. Il 17 febbraio ha proposto la rimozione dei dazi sull’importazione dei generi essenziali (carne, olio, farina, zucchero e riso) ma la legge è ancora dibattuta. Il 21 febbraio il vice premier Ibragim Dzhunusov ha annunciato con soddisfazione in conferenza stampa che le famiglie a basso reddito riceveranno ognuna un sacco di farina: tre giorni dopo il prezzo del grano è salito del 10% in 24 ore, tanto per confermare l’inadeguatezza della decisione.

Per rimediare, si cerca l’aiuto estero. La presidente Rosa Otunbaieva, simbolo della rivoluzione ed ex ambasciatrice presso gli Stati Uniti, non ha perso tempo. Proprio oggi incontrerà a Washington il segretario di Stato Hillary Clinton e i consiglieri del presidente Barack Obama, per chiedere “aiuti militari e finanziari” all’alleato americano. Il motivo ufficiale, infatti, è di ordine strategico: le frontiere kirghize sono vigilate soltanto da 3 soldati per chilometro di confine, contro i 7 militari tagiki e i 9-12 soldati dell’Uzbekistan. Per questo “le truppe frontaliere hanno bisogno di un forte sostegno finanziario”.

La Clinton ha un ottimo motivo per ascoltare Rosa: la base aerea di Manas, dislocata in Kirghizistan e ad un tiro di schioppo dall’Afghanistan. Qui transitano i rifornimenti delle truppe americane impegnate a Kabul: un accordo del 2010 autorizza il volo di cargo militari Usa fino al 2014, anche se molti a Bishkek gradirebbero la rapida evacuazione della base. Washington pagherà, come ha finora fatto, i conti del Kirghizistan per mantenere in sicurezza l’avamposto militare di Manas? Una spesa non indifferente: Manas costa 100 milioni di dollari l’anno al contribuente americano, e aumentare il budget non è molto allettante.

Non è tutto. La stessa Otunbaieva ha chiarito che “stiamo già lavorando con la Russia sulla questione, e cercheremo lo stesso aiuto presso Washington”. Gli interessi dei due paesi confliggono, anche se marginalmente. La Russia è rimasta ad osservare il cambiamento di regime kirghizo (a giugno scorso, il dittatore Bakiev è stato deposto ed esiliato da un’insurrezione popolare), ma non gradisce la presenza Usa, almeno non senza un tornaconto esplicito.  Mosca potrebbe addirittura puntare ad un nuovo disordine sociale a Bishkek  per ottenere la chiusura di Manas: inserendo un proprio “uomo” nella capitale, con l’America e l’Europa impegnate sul Mediterraneo. Lo stesso Kurmanbek Bakiev potrebbe approfittarne: presso il suo ospite Aleksander Lukashenko – grande anfitrione e autocrate bielorusso –  progetta forse un ritorno in grande stile sull’onda del malcontento popolare.

Che, anche negli altri paesi centroasiatici, cresce a vista d’occhio insieme alla povertà.