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Diritto di critica | November 22, 2024

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L'esercito dei baby-soldati, mandati a morire a 14 anni - Diritto di critica

L’esercito dei baby-soldati, mandati a morire a 14 anni

Ragazzini tra i quattordici e i diciassette anni, sotto effetto di stupefacenti per far sì che non pensino alle atrocità che stanno commettendo: le  testimonianze dirette dalla Libia hanno parlato anche di bambini tra i mercenari africani al soldo del regime di Gheddafi. Parole che riportano alla mente un dramma per niente nuovo, già sentito ma forse troppo spesso anche oggi dimenticato quando si parla di guerre o guerriglie: quello dei baby-soldati, ragazzini per cui la guerra non è un videogioco o un film, ma una realtà quotidiana. Bambini che, al posto di macchinine o giocattoli, stringono tra le mani kalashnikov e armi automatiche.

Attualmente sono più di 250.000 i minori di 18 anni impiegati nei conflitti armati: utilizzati da eserciti regolari, ribelli e milizie più o meno legali, hanno per la maggior parte dai 15 ai 18 anni, anche se è stato rilevato negli ultimi anni un abbassamento dell’età, portando anche bambini di 10 anni ad imbracciare le armi. Questa pratica sarebbe utilizzata in sessanta paesi del mondo, tra cui Afghanistan, Burundi, Chad, Colombia, Costa d’Avorio, Iraq, Liberia, Myanmar, Nepal, Filippine, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sri Lanka, Sudan e Uganda. Povertà, guerre, tensioni etniche o religiose, situazioni economiche e sociali svantaggiate o degradate: queste le cause principali alla base dell’utilizzo dei minori nei combattimenti. Ad essere arruolati sono soprattutto i bambini più vulnerabili: orfani, sfollati non accompagnati o che provengono da situazioni socio-economiche difficili (come i bambini di strada), oppure minori separati dalle famiglie nel corso di migrazioni forzate e improvvise a causa di guerre o persecuzioni etnico-religiose. L’arruolamento è talvolta volontario – un modo per sopravvivere in paesi devastati economicamente dai conflitti, per difendersi dalle violenze o per vendicare quelle perpetrate verso la propria famiglia o comunità – ma nella maggior parte dei casi i ragazzini vengono rapiti e costretti all’arruolamento con maltrattamenti fisici e psicologici. «In Uganda del nord, –  si legge in un comunicato del Coordinamento Bambini/Minori di Amnesty International – i ragazzi rapiti dall’LRA (Esercito di liberazione del Signore), un gruppo armato con basi nel sud del Sudan, subito dopo il rapimento vengono “iniziati” con la partecipazione forzata ad un’azione violenta – l’uccisione di un familiare o un altro bambino colpevole di aver tentato la fuga o di disobbedienza. Questo atto, oltre a terrorizzare i ragazzi, fa superare il tabù dell’omicidio e crea sensi di colpa che legano psicologicamente i ragazzi al gruppo armato».

La definizione di ‘bambini soldato’ è stata ampliata nel 1997, arrivando a comprendere non solo quei minori costretti ad imbracciare armi e combattere, ma anche tutti quelli utilizzati in varia misura sui cambi di battaglia, ad esempio come esche, corrieri o guardie, oppure per svolgere azioni logistiche, di supporto e di ricognizione. «L’aumento di questo fenomeno – prosegue il comunicato Amnesty – ha varie cause. Le armi leggere sono facilmente trasportabili e utilizzabili anche da bambini, dopo soli pochi giorni di addestramento. I ragazzi inoltre si assoggettano più facilmente degli adulti alla disciplina militare, non pretendono paghe, difficilmente disertano e sono facilmente sacrificabili». Minori usati come carne da cannone quindi, mandati al macello a seguito di crudeli addestramenti e sotto effetto di droghe e allucinogeni: cocaina, anfetamine o polvere da sparo bruciata e mischiata col riso, succo di canna da zucchero o hashish, perché siano particolarmente eccitati durante il combattimento, non si rendano conto di quanto stanno facendo e siano più malleabili.

A questo esercito si unisce poi quello delle bambine soldato, che costituiscono un terzo dei minori usati nei conflitti armati: bambine e ragazzine rapite durante le incursioni, oppure orfane che cercano protezione presso l’esercito per sfuggire alla strada e, una volta arruolate, diventano schiave dei combattenti, costrette a soddisfarne tutti i desideri. Subiscono violenze sessuali, abusi, spesso contraggono malattie come l’HIV e difficilmente rientrano nei programmi di recupero portati avanti dalle organizzazioni per i diritti umani, perché vedono nella loro condizione un tabù che spesso impedisce loro di farsi avanti per chiedere aiuto: vengono identificate infatti anche dalla comunità dalla quale provengono come “mogli” dei combattenti e come tali  stigmatizzate.

La vita militare segna i bambini ancora più di quanto non faccia con gli adulti. Oltre al rischio di essere uccisi e ai danni fisici – fase di crescita compromessa dalla mancanza di cibo, schiena maformata per il peso delle armi, infezioni cutanee e malattie come l’AIDS – i bambini soldato portano dentro di sè conseguenze psicologiche pesanti a seguito dei conflitti a cui prendono parte e delle atrocità a cui assistono o da loro stessi perpetrate: incubi ricorrenti, ma anche incapacità di reinserirsi in un tessuto sociale ‘normale’ e una tendenza all’abbruttimento, al misurarsi con gli altri solo in base a rapporti di forza. A ciò si aggiunge anche una ripercussione sugli altri minori: «se infatti i ragazzi possono usare le armi o essere utilizzati come spie – si legge ancora nel comunicato di Amnesty International – tutti i bambini verranno guardati con sospetto. Si rischia così che altri ragazzi vengano uccisi, imprigionati, interrogati solo per paura di un loro coinvolgimento con gruppi armati o con l’esercito».

Nel 1998 è stata approvata la risoluzione ONU che considera l’utilizzo di minori al di sotto dei 15 anni come soldati nei conflitti armati un crimine di guerra. Il Protocollo Opzionale alla Convenzione sui Diritti del fanciullo del maggio del 2000 vieta che i minori di 18 anni possano essere soggetti a leva obbligatoria e partecipare ai conflitti sia negli eserciti sia nei gruppi di opposizione armata: il Protocollo, ratificato da 114 Paesi, è entrato in vigore nel 2002. Anche nella Convenzione ILO contro il lavoro infantile si proibisce espressamente il reclutamento di ragazzi al di sotto dei 18 anni da parte delle forze combattenti, anche se la regolamentazione internazionale dell’uso dei bambini in guerra pare trovare un ostacolo anche tra alcuni paesi occidentali e ‘civili’:  paesi come il Canada, gli Stati Uniti, l’Australia, l’Olanda e la Gran Bretagna ammettono infatti nei propri ranghi  militari – seppure con leva volontaria –  ragazzi non ancora diciottenni.

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