Mubarak rimane ma cede i poteri. Quale futuro per l’Egitto? - Diritto di critica
- Emanuela De Marchi+
- 10 Febbraio 2011 Aggiungi questo articolo al tuo Magazine su Flipboard
Si dimette, anzi no. Mubarak rimane al comando dopo che il popolo egiziano e il mondo intero si aspettavano oggi le sue dimissioni. Ha dichiarato che guiderà il Paese verso nuove elezioni, dopo aver modificato alcuni articoli della Costituzione e aver dato di fatto pieni poteri a Suleiman, attuale vice presidente. Il suo regime è ormai giunto al capolinea.
Intanto, con ansia il mondo sta a guardare ciò che sta accadendo nella terra delle Piramidi. Da un lato tifando per chi lotta per i propri diritti e le proprie libertà, dall’altro sperando che nulla cambi in modo così radicale da distruggere i delicati equilibri della regione. Cosa succederà infatti quando Mubarak non sarà più presidente? Mentre alcuni egiziani iniziano già a rimpiangere i tempi andati, il resto del mondo si prepara a limitare i danni.
La questione egiziana ha conquistato tutte le prime pagine dei giornali e ha già spinto nel dimenticatoio la rivoluzione tunisina. Il motivo per cui l’Egitto è padrone della scena è molto semplice: è un paese con una popolazione di 80 milioni di abitanti contro i 10 milioni della Tunisia. Leader naturale del mondo arabo, ha un’enorme importanza geografica, politica e strategica. È facile capire che se il Presidente egiziano, Hosni Mubarak, dovesse cedere, le conseguenze sarebbero incalcolabili ed imprevedibili.
Capi di Stato tra mito e realtà. La maggior parte della popolazione araba è così giovane che non ha conosciuto altri capi di Stato se non quelli attuali. Difficilmente i giovani si ricordano il predecessore di Ben Ali in Tunisia, di Gheddafi in Libia e di Mubarak in Egitto. Personaggi, quest’ultimi, che hanno fatto la storia e che sono al potere da così tanto tempo da essere diventati figure intoccabili. La Tunisia ha dimostrato che non è così. Il partito di Facebook ha battuto tutti gli altri ed è riuscito a sfidare antichi e radicati regimi. Hanno avuto inizio in questo modo una serie di manifestazioni per la libertà che spaventano i regimi autoritari ancora in piedi e lasciano esitanti le diplomazie occidentali. Se l’Egitto non riuscisse a ritrovare un equilibrio interno, infatti, l’intera regione potrebbe essere contagiata dalla sua stessa instabilità. Per scampare al pericolo dell’effetto domino, alcuni stati, potenziali vittime, hanno iniziato a prendere provvedimenti. In Giordania, per placare le prime proteste dei cittadini che chiedono riforme democratiche, il re Abdallah II ha sostituito il primo ministro in carica, assegnando al successore il compito di modificare la legge elettorale per aumentare la partecipazione dei cittadini nella gestione dello Stato. Decisione non ritenuta dal popolo sufficiente e così sono state annunciate nuove proteste. Lo Yemen, uno dei paesi più poveri del Medio Oriente e rifugio dei militanti di Al Qaeda, si ritrova con una rivolta sociale del nord e problemi secessionistici al sud. La tensione è alta ed il Presidente, Ali Abdallah Saleh (primo ed unico Presidente da quando le Yemen è nato, già capo di Stato dello Yemen del Nord dal 1978) ha già annunciato che non si ricandiderà nel 2013.
La prima vittima: Israele. L’Egitto gioca un ruolo fondamentale nello scacchiere mediorientale. Mubarak aveva fatto della lotta al terrorismo islamico una sua priorità dopo essere scampato ad un attentato del 1981. Nemico giurato dell’Iran, ha fatto sì che l’Egitto fosse il primo paese arabo ad instaurare relazioni diplomatiche con Israele con il quale è legato dal trattato di pace del 1979. Questo lo rende un eccellente mediatore tra israeliani e palestinesi. Lo Stato ebraico assiste con grande preoccupazione alle vicende egiziane, sicuro che, d’ora in poi, la situazione non potrà che peggiorare. Nessun altro sarà così collaborativo come lo è stato Mubarak. Gli Stati Uniti condividono con Israele le stesse previsioni pessimistiche ma Barack Obama cerca di agire con prudenza, tenendo bene a mente l’esempio dell’ex Presidente americano Jimmy Carter durante la rivoluzione iraniana del 1979. L’aver sostenuto lo Scià fino alla fine, infatti, costò a Carter le elezioni presidenziali dell’anno successivo e favorì l’arrivo al potere dei radicali iraniani guidati dall’Ayatollah Khomeini. Obama è cosciente che con l’Egitto si gioca la vittoria alle presidenziali dell’anno prossimo e si sta muovendo, cercando anche di non ripetere gli errori commessi dai suoi predecessori in Iraq con la deposizione di Saddam Hussein. Per questo vorrebbe evitare rotture nette con il passato, programmando un coinvolgimento dei militari egiziani nel nuovo governo, cosa che non era avvenuta nel 2003 quando tutte le forze militari baathiste furono messe al bando.
Quale futuro per l’Egitto? Gli analisti prevedono tre possibili e differenti scenari per l’Egitto quando Mubarak abbandonerà definitivamente la barra del timone. In tutte e tre le opzioni la stabilità della regione sarebbe in pericolo. La prima possibilità è che i militari egiziani vadano al potere sostenuti da un popolo che ama le proprie forze armate e che ha sempre conosciuto presidenti con un passato militare. La seconda possibilità è che l’Egitto segua l’esempio della Turchia, Paese nel quale è riuscito con successo il tentativo di tenere sotto controllo l’Islam politico, esempio per molti democratici arabi. Questo però è possibile solo se i Fratelli musulmani, partito d’opposizione egiziano, rinnovassero la propria immagine prendendo anche le distanze dal terrorismo. L’ultima possibilità è che in Egitto vincano le forze più radicali e che si replichi ciò che era successo con la vittoria di Hamas in Palestina nelle elezioni del 2006.
Alcuni esperti americani sono molto pessimisti sul futuro politico dell’Egitto, ritenendo che ai regimi che cadono in seguito ad una rivolta popolare seguono sempre nuovi dittatori. Sicuramente la transizione egiziana dovrà cercare di avvenire cercando di evitare spaccature interne di cui potrebbero approfittare le forze più estremiste. È sicuramente arrivato per Mubarak il tempo di lasciare il posto ad un nuovo presidente, ma questo non significa che sia odiato così tanto come lo erano Ben Ali o Saddam Hussein. Molti degli obiettivi politici del vecchio presidente erano condivisi da gran parte della sua popolazione che lo aveva iniziato ad amare per le sue gesta durante la guerra dello Yom Kippur del 1973 e a rispettare per la sua integrità personale.
Ha collaborato Paolo Ribichini
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