Manfredi, 100 anni e 99 film. Lode a Nino e al suo eclettismo
Un documentario e tanti speciali in ricordo del grande attore. Amaro e generoso allo stesso tempo, mai uguale a sé stesso
Su di lui sono già stati scritti fiumi e fiumi di parole, che ad aggiungerne altre sembra quasi di sminuire la sua arte. Ma oggi quell’arte è giusto ribadirla, anche per invitare le nuove generazioni a conoscerne la modernità. Oggi che Saturnino Manfredi detto Nino avrebbe 100 anni, vengono alla mente, senza poterci fare nulla, altrettanti ruoli, mondi, avventure e sprazzi di vita. Un caleidoscopio che ogni italiano ha composto partendo da un frammento diverso.
I cento volti di Nino Per chi è stato bambino negli anni Ottanta, Nino era il baffo rassicurante che sorseggiava caffè sorridendo, o l’attore decaduto con il vizio dell’alcool che usciva da un ascensore in frac. Ma, sempre per chi è stato bambino negli anni Ottanta, quella era solo inconsapevolezza e sana ignoranza. Si perché nel frattempo il grande attore aveva già segnato la storia del cinema italiano portandosi a casa, tra vari riconoscimenti e candidature, 4 David di Donatello e 4 Nastri d’Argento. Inevitabile quindi scoprire poi i frammenti delle generazioni precedenti: per qualcuno sono le commedie deliziose degli anni Sessanta, come “Adulterio all’italiana” (1966) o “Straziami ma di baci saziami” (1968), per molti altri sono invece i ruoli coraggiosi e complessi degli anni Settanta, dall’emigrato in Svizzera costretto a reprimere la propria identità in “Pane e cioccolata” (1974), all’idealista Antonio del capolavoro dolceamaro “C’eravamo tanto amati” (1974) fino al dispotico Giacinto Mazzatella di “Brutti, sporchi e cattivi” (1976). E quanti ancora hanno vivido il frammento del Geppetto televisivo nel “Pinocchio” di Luigi Comencini (1972). Pezzo dopo pezzo, il caleidoscopio è pronto all’uso, e non smette mai di essere attuale.
Unico ed eclettico Appassionatosi alla recitazione per caso, mentre si curava dalla tubercolosi in un sanatorio, negli anni Quaranta Manfredi si laurea in giurisprudenza per compiacere la famiglia, frequentando contemporaneamente l’Accademia nazionale d’arte drammatica di Roma. Dopo gli esordi in teatro, e i primi anni dedicati alla rivista e alla radio, arriva il successo al cinema, che si affiancherà sempre a televisione, doppiaggio, regia, commedia musicale (il suo “Rugantino” è del 1962). Nino lavora con i registi più grandi (Ettore Scola, Dino Risi, Loy, Comencini, Damiani). E diventa uno dei quattro colonnelli della commedia all’italiana (con le eccellenti incursioni di Mastroianni e Vitti): forse meno personaggio iconico di Sordi, forse meno dissacrante di Tognazzi e non imponente quanto Gassman, ma probabilmente il più eclettico e capace di immedesimarsi completamente con le sue decine di alter ego.
Talento meticoloso La grandezza della recitazione di Manfredi è la sua stessa, apparente, mancanza: quando seguiamo i tormenti dell’emigrato italiano, il mal d’amore del barbiere Marino o le parti nella trilogia di Luigi Magni sulla Roma papalina del Risorgimento, non vediamo Nino Manfredi. Perché la sua bravura lo fa scomparire e porta in primo piano la narrazione, e subito dopo la riflessione. Dietro quel “malinconico straniamento” dei personaggi c’è un lavoro certosino, fatto anche di gestualità e mimica facciale. Niente è lasciato al caso. Manfredi studiava a fondo i suoi ruoli, e li restituiva pieni di tutte le contraddizioni e debolezze dell’uomo moderno, sempre in bilico tra ironia e inquietudine. A dispetto delle sue esilaranti interpretazioni, sia in tv che al cinema, Nino è stato infatti anche un grande attore drammatico, mai uguale a se stesso. Spietato, caustico, amaro, generoso e appassionato.
Dalla regia agli anni delle fiction Il coraggio di sperimentare e non fossilizzarsi su un ruolo sono ben chiari sin dal suo “Per grazia ricevuta” (1971), premiato come opera prima a Cannes. Un film complesso, in cui viene affrontato il delicato tema della messa in discussione della morale cattolica, e di quei valori che in Italia cominciavano a vacillare. È lo smarrimento di un Paese in cambiamento, già ironizzato nel “Vedo nudo” di Risi del 1969, che Manfredi si presta a mettere in evidenza in tutti gli anni Settanta e parte del decennio successivo (di rilievo anche il venditore abusivo di “Café Express”, ruolo che gli fa vincere nel 1980 il suo ultimo Nastro d’Argento). Con incursioni piacevoli nella pubblicità (ecco che ritorna il baffo che sorseggia caffè di cui sopra), nella nuova commedia degli anni Ottanta (“Testa o croce”, “Il tenente dei carabinieri”, il frac di “Grandi magazzini”) e nelle prime fiction televisive con protagonisti uomini e donne in divisa (“Linda e il brigadiere”, 1997). Instancabile e sempre diverso.
L’omaggio Per questo importante anniversario, la tv lo celebra con numerosi omaggi, testimonianze e la possibilità di rivedere molti dei suoi personaggi. Ma anche con una riflessione sull’uomo, come nel documentario “Uno, nessuno, cento Nino”, diretto dal figlio regista Luca, che andrà in onda su Sky Arte e su Rai Due. Un uomo che si definiva «[…] Pieno di difetti, antipatico, un rompiballe». «Quando a casa suonavano alla porta, non sapevi mai chi potevi trovarti davanti: forse Mina, o Totò, o ancora Ornella Vanoni, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi»: così ha raccontato anni fa la figlia maggiore Roberta, parlando dell’infanzia vissuta accanto al celebre padre. Un turbinio di emozioni, cene, incontri speciali, che lasciano intuire le mille sfaccettature di un attore capace di attraversare mezzo secolo reinventandosi e risultando sempre impeccabile. In poche parole, un grande attore. Auguri, Nino!