Pantani, quindici anni senza il Pirata che ha fatto sognare l'Italia
Era il San Valentino del 2004, che portava via con sé un piccolo grande uomo di sport, osannato e poi lasciato solo in un attimo
Pochi giorni dopo la morte di Marco Pantani, in una trasmissione televisiva, l’ex ministro Maurizio Gasparri dichiarò che presto nessuno si sarebbe più ricordato del Pirata. Mai previsione fu così sbagliata. Pantani fa parte infatti di quella tipologia di campioni la cui aurea diventa sempre più brillante col passare del tempo, un po’ per la favola che ha regalato al ciclismo italiano, un po’ per le circostanze della sua morte: una morte insensata, terribilmente ingiusta, arrivata in un desolato residence riminese e attorno alla quale si è detto e non detto di tutto. Overdose da cocaina, sentenzia l’inchiesta frettolosa del 2005; poi la riapertura delle indagini nel 2014 e l’archiviazione. Nonostante i dubbi. Nonostante i dettagli che non quadrano, i testimoni mai sentiti o non ascoltati abbastanza.
Paradiso e Inferno Sono trascorsi già quindici anni, ma sembra ieri. Sembra ieri che arrivava, come una stilettata, la notizia della scomparsa dell’atleta che più ha avvicinato gli italiani al ciclismo. Quello che ha conquistato Giro e Tour nello stesso anno, facendo impazzire e strabiliare persino i francesi. Lui, il piccolo grande uomo dagli occhi profondi e vagamente malinconici, così forte in salita («per abbreviare l’agonia», disse una volta al giornalista Gianni Mura), così fragile nell’animo, anche se dalle batoste che la vita gli aveva riservato si era sempre ripreso. Fino a quel maledetto Giro d’Italia del 1999, l’inizio della fine. Ematocrito troppo alto, margine di tolleranza: uno per cento. Non è doping, ma per i suoi detrattori è ormai bollato con il marchio di “drogato”. Troppe cose non tornano quella mattina, ai controlli: «Mi hanno fregato», si difende Pantani incredulo, ferito, tramortito, che fugge dal massacro mediatico e da sé stesso, e sprofonda nel buio.
La verità che non consola Chi scrive ha combattuto verbalmente per anni con i faciloni di turno, seduti in una pizzeria o sui mezzi pubblici a sparare sentenze a caso, solo per il gusto di andare contro corrente. Poi, dopo troppo tempo (è sopraggiunta la prescrizione) e con assai poca consolazione, si è potuto dire, anzi urlare, che Marco aveva ragione: gli è stato praticamente tolto un Giro d’Italia già vinto sulla base di analisi contraffatte, che indicavano un livello di ematocrito superiore al limite consentito. E dietro a quei medici corrotti c’era qualcosa di enorme: la camorra, e il suo giro d’affari miliardario con le scommesse sportive. Le intercettazioni hanno squarciato il velo sugli occhi di chi non voleva vedere: il Pirata è stato colpito perché era il più forte. Perché scommettere contro di lui, sicuro vincente a poche tappe da Milano, avrebbe significato fare una montagna di soldi. Maledetti soldi. Poco importava distruggere il sogno di un ragazzo e la sua vita, che da quel momento sarebbe cambiata per sempre.
Una favola indelebile Quindici anni dopo la morte, il mito di Pantani è sempre vivo. A dimostrarlo sono i monumenti a lui dedicati (come le sculture a Les Deux Alpes e quella sul Mortirolo, tra le montagne che l’ “elefantino volante” ha reso note con le sue imprese), le gare organizzate nella sua Cesenatico (la “Pantanissima”, il “Memorial Pantani”, la “Gran Fondo Pantani”), gli striscioni onnipresenti nelle salite più belle della corsa rosa. Il culto di Marco vive anche in un museo, che ripercorre la carriera del ciclista, frastagliata da infortuni e travolgenti vittorie, e nella Fondazione a lui intitolata, un modo per aiutare i meno fortunati ad integrarsi nel nome dei valori dello sport. Che emozioni, che spettacolo quando la bandana cadeva a terra: il Pirata partiva e non ce n’era per nessuno. Passione pura che filtrava da ogni goccia di sudore. E che rimane impressa negli occhi di chi ha assistito alla sua storia. Ancora oggi.
Pochi giorni dopo la morte di Marco Pantani, in una trasmissione televisiva, l’ex ministro Maurizio Gasparri dichiarò che presto nessuno si sarebbe più ricordato del Pirata. Mai previsione fu così sbagliata. Pantani fa parte infatti di quella tipologia di campioni la cui aurea diventa sempre più brillante col passare del tempo, un po’ per la favola che ha regalato al ciclismo italiano, un po’ per le circostanze della sua morte: una morte insensata, terribilmente ingiusta, arrivata in un desolato residence riminese e attorno alla quale si è detto e non detto di tutto. Overdose da cocaina, sentenzia l’inchiesta frettolosa del 2005; poi la riapertura delle indagini nel 2014 e l’archiviazione. Nonostante i dubbi. Nonostante i dettagli che non quadrano, i testimoni mai sentiti o non ascoltati abbastanza.
Paradiso e Inferno Sono trascorsi già quindici anni, ma sembra ieri. Sembra ieri che arrivava, come una stilettata, la notizia della scomparsa dell’atleta che più ha avvicinato gli italiani al ciclismo. Quello che ha conquistato Giro e Tour nello stesso anno, facendo impazzire e strabiliare persino i francesi. Lui, il piccolo grande uomo dagli occhi profondi e vagamente malinconici, così forte in salita («per abbreviare l’agonia», disse una volta al giornalista Gianni Mura), così fragile nell’animo, anche se dalle batoste che la vita gli aveva riservato si era sempre ripreso. Fino a quel maledetto Giro d’Italia del 1999, l’inizio della fine. Ematocrito troppo alto, margine di tolleranza: uno per cento. Non è doping, ma per i suoi detrattori è ormai bollato con il marchio di “drogato”. Troppe cose non tornano quella mattina, ai controlli: «Mi hanno fregato», si difende Pantani incredulo, ferito, tramortito, che fugge dal massacro mediatico e da sé stesso, e sprofonda nel buio.
La verità che non consola Chi scrive ha combattuto verbalmente per anni con i faciloni di turno, seduti in una pizzeria o sui mezzi pubblici a sparare sentenze a caso, solo per il gusto di andare contro corrente. Poi, dopo troppo tempo (è sopraggiunta la prescrizione) e con assai poca consolazione, si è potuto dire, anzi urlare, che Marco aveva ragione: gli è stato praticamente tolto un Giro d’Italia già vinto sulla base di analisi contraffatte, che indicavano un livello di ematocrito superiore al limite consentito. E dietro a quei medici corrotti c’era qualcosa di enorme: la camorra, e il suo giro d’affari miliardario con le scommesse sportive. Le intercettazioni hanno squarciato il velo sugli occhi di chi non voleva vedere: il Pirata è stato colpito perché era il più forte. Perché scommettere contro di lui, sicuro vincente a poche tappe da Milano, avrebbe significato fare una montagna di soldi. Maledetti soldi. Poco importava distruggere il sogno di un ragazzo e la sua vita, che da quel momento sarebbe cambiata per sempre.
Una favola indelebile Quindici anni dopo la morte, il mito di Pantani è sempre vivo. A dimostrarlo sono i monumenti a lui dedicati (come le sculture a Les Deux Alpes e quella sul Mortirolo, tra le montagne che l’ “elefantino volante” ha reso note con le sue imprese), le gare organizzate nella sua Cesenatico (la “Pantanissima”, il “Memorial Pantani”, la “Gran Fondo Pantani”), gli striscioni onnipresenti nelle salite più belle della corsa rosa. Il culto di Marco vive anche in un museo, che ripercorre la carriera del ciclista, frastagliata da infortuni e travolgenti vittorie, e nella Fondazione a lui intitolata, un modo per aiutare i meno fortunati ad integrarsi nel nome dei valori dello sport. Che emozioni, che spettacolo quando la bandana cadeva a terra: il Pirata partiva e non ce n’era per nessuno. Passione pura che filtrava da ogni goccia di sudore. E che rimane impressa negli occhi di chi ha assistito alla sua storia. Ancora oggi.