Forte, sfacciato, vero: "Tonya" è il film di Pasqua da vedere
Il film sulla vicenda della pattinatrice statunitense è tra i più intensi degli ultimi mesi. Uno spaccato di vita americana sorretto da cast e colonna sonora perfetti
Potente. Prepotente. Strafottente. Come la vita di Tonya Harding, così è il film che la racconta, finalmente sugli schermi italiani dopo il successo di critica e le lodi agli Oscar. Un pugno in piena faccia, che scuote sin dal primo minuto e trasmette tutta la rabbia di una storia folle, assurda, e forse per questo ancora più vera.
Una storia d’America Ne parlò tutto il mondo, agli inizi degli anni Novanta, dell’ascesa e caduta della pattinatrice su ghiaccio che arrivava dall’Oregon, bandita dalle gare a soli 24 anni con l’accusa di aver provocato un incidente alla sua rivale Nancy Kerrigan. Oggi riscopriamo la vicenda intrecciata alla sua vita difficile, fatta di miseria, abusi e incontri sbagliati, in due ore di scene incalzanti e realistiche che il regista Craig Gillespie fa rivivere attraverso interviste ricostruite ai protagonisti. Il risultato, senza fronzoli e vittimismi, è quasi poesia: un fiore acerbo, Tonya, che, seppur brusca e incattivita dall’ambiente in cui cresce, cerca di uscire dallo squallore di case vuote e tristi con una forza spiazzante. Decadente ma bellissima, nella sua coda di cavallo e corpino viola malamente agghindato di perline, pailettes e pezzi di tulle. Poi vent’anni che sembrano quaranta, le accuse, l’accanimento mediatico, il baratro.
In cerca di normalità? La prima atleta statunitense (la seconda al mondo) ad eseguire la figura del triplo axel viene dall’America più povera, signori, e non ha niente di “normale” o gradito ai giudici buonisti in cui si imbatte alle competizioni: famiglia, fisico, abitudini, vestiti di gara. Lei non “sta al gioco”, ed è difficile non sembrare diversa, anche quando ci provi. Una madre arida capace solo di umiliarla, un futuro ex marito che la picchia, un’unica passione, il pattinaggio su ghiaccio, in grado di donarle amore e speranza e di farla sentire almeno per un po’ adeguata e incolpevole. Ma “Tonya” non è semplicemente lo sport come riscatto, àncora di salvezza per chi non ha nulla e non sa come uscirne. E non è nemmeno una celebrazione della protagonista. Il film allarga la visione alle convenzioni sociali, al falso moralismo di 25 anni fa che suona ancora così attuale, alla potenza che può avere una semplice storia di vita: cruda come uno schiaffo dato senza motivo, romantica come due ragazzi in jeans a vita alta che si baciano appoggiati al cofano di una macchina.
Due prime donne Ora non sarà più solo la bella bionda che faceva girare la testa a Leonardo Di Caprio in “The wolf of Wall Street”. Margot Robbie per noi oggi è Tonya, tanto si è preparata e immedesimata nei panni della Harding. Dopo averla incontrata più volte e avere sentito (così ha dichiarato l’attrice in varie interviste) una reale empatia con lei, la Robbie ha creato un piccolo capolavoro, sapientemente diretta e condotta attraverso un turbinio di emozioni contrastanti: emblematica la scena prima della gara olimpica quando, a rischio squalifica, Tonya si trucca allo specchio cercando di dissimulare ansia e lacrime con un sorriso di circostanza. Al suo pari, e l’Academy lo ha riconosciuto dandole l’Oscar, Allison Janney, che interpreta magistralmente la madre. Sigaretta sempre accesa, occhialoni anni Settanta, sguardo torvo; una donna piena di figli e mariti ma vuota di affetto e amore: «Ti ho fatto diventare una campionessa sapendo che mi avresti odiata, dovresti ringraziarmi» è una delle frasi più innocue che dice a Tonya. Un rapporto cruciale e deleterio, fatto solo di rimproveri e freddezza quasi inumana.
Un lavoro ben fatto Tragedia ironica? Storia di vita? “Tonya” sfugge ad ogni definizione, supportato anche da una colonna sonora potente e da una fotografia ruvida e calda, ricostruzione perfetta dei decenni Ottanta e Novanta. È come se lo spettatore entrasse in un dramma e lo attraversasse senza pesantezza, ma allo stesso tempo non ne sentisse sminuiti i lati oscuri e le emozioni. «Ognuno ha la sua verità, poi la vita fa quel che gli pare», ha dichiarato la vera Tonya Harding una volta. Questo film non pretende di saperla, la verità; il suo punto di vista si offre e basta, e merita di essere visto e, appunto, attraversato.
Potente. Prepotente. Strafottente. Come la vita di Tonya Harding, così è il film che la racconta, finalmente sugli schermi italiani dopo il successo di critica e le lodi agli Oscar. Un pugno in piena faccia, che scuote sin dal primo minuto e trasmette tutta la rabbia di una storia folle, assurda, e forse per questo ancora più vera.
Una storia d’America Ne parlò tutto il mondo, agli inizi degli anni Novanta, dell’ascesa e caduta della pattinatrice su ghiaccio che arrivava dall’Oregon, bandita dalle gare a soli 24 anni con l’accusa di aver provocato un incidente alla sua rivale Nancy Kerrigan. Oggi riscopriamo la vicenda intrecciata alla sua vita difficile, fatta di miseria, abusi e incontri sbagliati, in due ore di scene incalzanti e realistiche che il regista Craig Gillespie fa rivivere attraverso interviste ricostruite ai protagonisti. Il risultato, senza fronzoli e vittimismi, è quasi poesia: un fiore acerbo, Tonya, che, seppur brusca e incattivita dall’ambiente in cui cresce, cerca di uscire dallo squallore di case vuote e tristi con una forza spiazzante. Decadente ma bellissima, nella sua coda di cavallo e corpino viola malamente agghindato di perline, pailettes e pezzi di tulle. Poi vent’anni che sembrano quaranta, le accuse, l’accanimento mediatico, il baratro.
In cerca di normalità? La prima atleta statunitense (la seconda al mondo) ad eseguire la figura del triplo axel viene dall’America più povera, signori, e non ha niente di “normale” o gradito ai giudici buonisti in cui si imbatte alle competizioni: famiglia, fisico, abitudini, vestiti di gara. Lei non “sta al gioco”, ed è difficile non sembrare diversa, anche quando ci provi. Una madre arida capace solo di umiliarla, un futuro ex marito che la picchia, un’unica passione, il pattinaggio su ghiaccio, in grado di donarle amore e speranza e di farla sentire almeno per un po’ adeguata e incolpevole. Ma “Tonya” non è semplicemente lo sport come riscatto, àncora di salvezza per chi non ha nulla e non sa come uscirne. E non è nemmeno una celebrazione della protagonista. Il film allarga la visione alle convenzioni sociali, al falso moralismo di 25 anni fa che suona ancora così attuale, alla potenza che può avere una semplice storia di vita: cruda come uno schiaffo dato senza motivo, romantica come due ragazzi in jeans a vita alta che si baciano appoggiati al cofano di una macchina.
Due prime donne Ora non sarà più solo la bella bionda che faceva girare la testa a Leonardo Di Caprio in “The wolf of Wall Street”. Margot Robbie per noi oggi è Tonya, tanto si è preparata e immedesimata nei panni della Harding. Dopo averla incontrata più volte e avere sentito (così ha dichiarato l’attrice in varie interviste) una reale empatia con lei, la Robbie ha creato un piccolo capolavoro, sapientemente diretta e condotta attraverso un turbinio di emozioni contrastanti: emblematica la scena prima della gara olimpica quando, a rischio squalifica, Tonya si trucca allo specchio cercando di dissimulare ansia e lacrime con un sorriso di circostanza. Al suo pari, e l’Academy lo ha riconosciuto dandole l’Oscar, Allison Janney, che interpreta magistralmente la madre. Sigaretta sempre accesa, occhialoni anni Settanta, sguardo torvo; una donna piena di figli e mariti ma vuota di affetto e amore: «Ti ho fatto diventare una campionessa sapendo che mi avresti odiata, dovresti ringraziarmi» è una delle frasi più innocue che dice a Tonya. Un rapporto cruciale e deleterio, fatto solo di rimproveri e freddezza quasi inumana.
Un lavoro ben fatto Tragedia ironica? Storia di vita? “Tonya” sfugge ad ogni definizione, supportato anche da una colonna sonora potente e da una fotografia ruvida e calda, ricostruzione perfetta dei decenni Ottanta e Novanta. È come se lo spettatore entrasse in un dramma e lo attraversasse senza pesantezza, ma allo stesso tempo non ne sentisse sminuiti i lati oscuri e le emozioni. «Ognuno ha la sua verità, poi la vita fa quel che gli pare», ha dichiarato la vera Tonya Harding una volta. Questo film non pretende di saperla, la verità; il suo punto di vista si offre e basta, e merita di essere visto e, appunto, attraversato.