Totò Riina e i segreti d'Italia sepolti con lui
Totò Riina ha vissuto 25 anni in più di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ventiquattro di questi li ha passati in carcere (condannato a 26 ergastoli), mantenendo intatti l’odio, la ferocia, l’ego sprezzante e, secondo alcuni, il potere. Ma soprattutto il silenzio, interrotto solo, durante la concessa ora d’aria, dal pavoneggiarsi della riuscita della strage di Capaci e dalle minacce di morte al magistrato Nino di Matteo, che segue il processo (ancora in corso) sulla presunta Trattativa Stato-mafia e le inchieste ad esso collegate. Guardava in videoconferenza ogni udienza, il boss, con rinnovato livore e con la costante preoccupazione di apparire non come un burattino nelle mani di politica e istituzioni, ma come “il re”: «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me».
Le domande che ci tormentano Questa intercettazione del 2013, e alcune altre, all’interno del carcere milanese di Opera, sembrano nascondere verità eclatanti, che però non sapremo mai, poiché Riina davanti ai giudici non ha aperto bocca, come Provenzano prima di lui: ci fu l’accordo con Cosa Nostra per far cessare le stragi? Cosa chiese la mafia in cambio? Chi, all’interno dell’organizzazione, aveva contatti e relazioni con politici ed esponenti della società civile? Secondo le testimonianze dei pentiti, i contatti cominciarono già prima delle stragi del 1992, una sorta di accordo reciproco con vantaggi per entrambe le parti: per Cosa Nostra questi comprendevano la revisione del Maxiprocesso istituito da Falcone e Borsellino e l’attenuazione del decreto legge 41bis, che prevede il carcere duro per reati come quelli a sfondo mafioso. Riina sarebbe stato furioso perché a pagare le conseguenze della Trattativa era solo lui, mentre lo Stato era rimasto impunito. E allora perché non parlare? La matassa incredibilmente intricata allarga a macchia d’olio gli interrogativi, che vanno dalla fine dell’agenda scomparsa di Borsellino al ruolo dei Servizi Segreti, fino all’omertà di numerose figure politiche e istituzionali che non hanno ovviamente chiarito alcuni strani dettagli e quanto i due mondi si siano contaminati. Riina nelle sue esternazioni si disse deluso da Andreotti e, in seguito, da Silvio Berlusconi e dal suo partito, e non solo per non aver fermato i magistrati.
Il cambio di strategia e i nuovi scenari Con la strategia della “sommersione”, negli ultimi vent’anni, calata l’onda di apparente presa di coscienza delle istituzioni in seguito alle stragi di Capaci e di Via d’Amelio, la mafia ha continuato silente a fare affari e a penetrare nelle maglie della società e di chi ne è alla guida: «Per sconfiggere Cosa Nostra dobbiamo guardare anche dentro lo Stato – ha dichiarato nel 2015 il magistrato Nino di Matteo – Perché l’organizzazione mafiosa ha continuato a trattare, a tanti livelli, con uomini e pezzi delle istituzioni. Politici in cerca di voti, amministratori collusi, esponenti delle forze dell’ordine e dei servizi di sicurezza. Coltivando questi e altri rapporti, Cosa Nostra ha superato l’isolamento in cui arresti e processi tentavano di ridurla. Ed è stata riconosciuta come entità presente e ben ancorata nella nostra società». La morte di Riina e il suo silenzio mantenuto fino alla fine hanno sicuramente sollevato e salvato qualcuno dalla verità, mentre portano rabbia e sconfitta a chi quella verità la sta ancora cercando.