Vite precarie - Alfredo: ''dimesso'' dopo 14 anni di lavoro
Quando salgo sul taxi è quasi l’una di notte. Esco da una riunione di lavoro durata oltre quattro ore. Gentile, il tassista mi chiede dove sia diretto. Complice il silenzio della notte e il fatto che fossi salito a bordo con un pc e in giacca, mi domanda se avessi lavorato fino a poco prima. E inizia a raccontarmi anche la sua storia. Una vicenda di ordinario precariato, in un’Italia uscita dalla crisi solo nelle dichiarazioni di certa parte politica.
Mentre il taxi scorre lungo l’aria umida della Capitale – Parioli, Policlinico, San Giovanni, poi giù verso l’EUR – Alfredo, questo il nome del ragazzo che guida, inizia il suo racconto. “Anni fa anche io avevo un ufficio, come te. Fare il tassista non era il mio lavoro. Per oltre dieci anni – quattordici, per la precisione – ho lavorato come informatico. Giravo l’Italia e l’Europa per fare assistenza a convegni e grandi eventi. Avevo un contratto con tutte le tutele, straordinari pagati e viaggiavo. Con una moglie e due figli al giorno d’oggi sono fortune rare, com’è raro fare un lavoro che ci dia soddisfazione”. E poi cosa è successo? Chiedo, sperando che le parole non siano inopportune.
Alfredo tace per qualche istante poi riprende, quasi non avesse sentito la mia domanda. “In azienda eravamo una ventina, eravamo tutelati dall’articolo 18, un contratto ormai impossibile, figlio di una generazione ormai passata. Cosa è successo? Prima ci hanno messo in una fantomatica solidarietà, successivamente ci hanno chiesto di firmare le dimissioni”. Nessun licenziamento, dunque, ma Alberto racconta di una dozzina di dimissioni “mascherate” in un giorno solo. “Ero lì da molto tempo – prosegue – avevo una tale confidenza con il mio ex datore di lavoro che alcune volte sono anche andato a prendere i suoi figli a scuola. Nonostante questo sono stato messo alla porta in men che non si dica, forse proprio perché ero uno dei dipendenti più anziani, d’altronde – aggiunge – la società a quel punto risultava già avere meno di 15 dipendenti e quindi tutte le tutele figlie dell’articolo 18 non c’erano più. Ti ripeto: ufficialmente non avevano licenziato nessuno”.
Senza più un impiego, Alfredo è andato avanti come ha potuto grazie alla buonuscita. Racconta di centinaia e centinaia di curriculum inviati per cercare un nuovo lavoro. “Mi rispondevano che ero troppo grande, oppure poco aggiornato. Già, perché quello dell’informatica è un mondo in cui una volta che esci dal mercato perdi progressivamente professionalità. Di contro, una persona con la mia esperienza la si può pagare come un neolaureato”.
A quel punto – anche grazie a un comune amico di famiglia tassista, Alfredo inizia a portare avanti le pratiche per prendere la patente che gli avrebbe permesso di guidare un taxi. “Nella vita non avrei mai pensato di dover fare questo lavoro. Non perché sia un brutto impiego – spiega – anzi, si guadagna dal primo giorno, ma perché se ti laurei e porti avanti un percorso di studi e di vita, poi non immagini di ritrovarti nella mia situazione”.
E la tua azienda – chiedo – ha chiuso? “Macché: tutti pensavamo che avrebbe potuto dichiarare fallimento e non darci un euro, per questo abbiamo accettato di andarcene. E invece dopo le dimissioni dei più anziani – già una settimana dopo – hanno assunto dei neolaureati che costavano la metà del nostro stipendio e hanno rimesso su l’intera squadra”.
Nel frattempo siamo quasi arrivati a destinazione. “Ma non mi lamento – conclude Alfredo – c’è chi sta molto peggio. L’affitto della licenza mi costa un migliaio di euro al mese, è come prendere in gestione una qualsiasi attività commerciale, e poi si guadagna da subito. Certo non era la vita che sognavo, ma a quarant’anni per ora va bene così”.