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Diritto di critica | November 6, 2024

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Gramellini: «Siamo arlecchini o bastian contrari. L’Europa? Ai giovani» - Diritto di critica

Ddc ha incontrato il vicedirettore de “La Stampa”. Una panoramica su attualità, cinema e speranza nel futuro

Mentre mi accompagnano da lui, alla fine di un’altra puntata di “Che fuori tempo che fa”, fuori dallo studio televisivo il trambusto regna sovrano.  Massimo Gramellini, con il suo sorriso distinto, per niente di circostanza, mi accoglie tra scartoffie, cambi d’abito e un computer acceso. Sul tavolo, dell’acqua e una mela, pronta per placare la fame. Di fronte, una poltrona che ricorda non troppo vagamente quella in cui ci accomodiamo dal dentista, prima della periodica “tortura”. Gramellini ci sprofonda dentro, e attende pazientemente che io mi raccapezzi tra block notes e appunti volanti. La trasmissione è appena terminata: tra i camerini risate e saluti, ogni tanto qualcuno si affaccia per dare la buonanotte. Non si può non iniziare parlando della pellicola tratta dal suo libro “Fai bei sogni”, che uscirà nelle sale il prossimo autunno.

All’ultimo Festival di Cannes è stato presentato il film di Marco Bellocchio ispirato al suo best seller autobiografico, “Fai bei sogni”, in cui sono centrali la perdita di una madre e le sue conseguenze. Ma lei inizialmente ha dichiarato che avrebbe preferito che il libro non fosse diventato un film. Che effetto le ha fatto, ora, vedere la sua storia sul grande schermo?

«La verità è che quando ho saputo dell’interessamento di Bellocchio sono rimasto molto colpito: nel suo primo film, “Pugni in tasca”, c’è l’assassinio di una madre, e questa cosa mi è sembrata in qualche modo la chiusura del cerchio. Devo dire che il regista ha fatto un ottimo lavoro, anche se il film si discosta dal libro, ne è una libera interpretazione, come è giusto che sia. Io dico sempre che un libro ha due autori: chi lo scrive e chi lo legge. Bellocchio ha raccontato gli aspetti che più lo avevano emozionato nella lettura, nel personaggio di Massimo c’è la sua sensibilità, e vederlo mi ha fatto un certo effetto.»

Proprio Bellocchio, ripercorrendo il percorso di vita del protagonista, ha definito quello del giornalista un mestiere «tragico, dalla dimensione disumana, pieno di estremismi».

«Il nostro è un lavoro “superficiale”, lo sappiamo benissimo. Un giorno ti emozioni per una storia e l’anno dopo magari non ricordi più di averla scritta. Invece quando ti dedichi ad un libro, per esempio, passi mesi e mesi sullo stesso progetto. In un certo senso siamo gli storici dell’attualità, e abbiamo sempre poco tempo, però a volte proprio perché sei costretto dall’urgenza ti vengono fuori delle cose straordinarie; è un po’ come accade in tv con l’improvvisazione.»

I dati sulla libertà di stampa in Italia parlano chiaro. Non crede che i presunti “casi” Giannini e Belpietro e i recenti progetti di accorpamenti tra grandi gruppi editoriali (quelli di “Repubblica” e “La Stampa”, ndr.) peggioreranno una situazione già compromessa dall’intromissione della politica nell’informazione?

«Io non so se il governo Renzi abbia inciso o meno su queste decisioni, ma se fosse così avrebbe fatto una cosa inutile. Cito un caso emblematico: nei primi anni Novanta Bossi, quando la Lega in tv non esisteva, ha fatto il boom di voti ridimensionando Craxi che in quel momento era “padrone” di tutto, dai giornali alle reti Fininvest, che tessevano le sue lodi. C’è l’illusione che controllare le critiche dei mezzi di informazione possa portare voti, ma sebbene io sia conscio della loro grande influenza, non è così che si forma l’opinione. Nemmeno durante il berlusconismo più imperante ho mai creduto che Berlusconi vincesse le elezioni per merito delle tv. In questo momento, tra l’altro, la politica in televisione non funziona più: manca una vera battaglia ideale, un personaggio che divida come faceva un tempo l’ex Cavaliere. Renzi non suscita né grandi odi né grandi amori. Io stesso mi accorgo che quando affronto con il pubblico argomenti di politica, la gente non sa di cosa sto parlando. Volendo, tutto ciò è un po’ inquietante. Per quanto riguarda i grandi gruppi editoriali, da quel che so dietro c’è stato un ragionamento puramente economico. Nel mondo dell’informazione ormai la competizione è a livello globale, e c’è necessità di sinergie tra diverse realtà. Non dico che non ci siano le censure, sebbene io in tanti anni a “La Stampa” non ne abbia mai subite, ma c’è da considerare la tendenza molto italiana ad andare dalla parte in cui gira il vento, così come da quella opposta. Insomma, siamo arlecchini o bastian contrari. Io appartengo alla seconda categoria, anche perché nella mia visione del giornalismo chi fa questo mestiere deve sempre criticare il potere.»

Che idea si è fatto della “questione morale” Pd-Movimento 5 Stelle? Una volta ha parlato di “maleducazione ai sentimenti”, qui volendo siamo a quella dell’onestà. O possiamo ancora salvarci?

«Penso che la corruzione non si risolva cambiando una persona con un’altra. La prova è che ogni volta che votiamo qualcuno, dopo sei mesi siamo scontenti del suo operato. È il sistema, sono le regole che “aiutano” determinati comportamenti. Se per far approvare una pratica occorrono ben 20 timbri, 20 passaggi, tu crei teoricamente 20 occasioni di corruzione. Nella sanità, per esempio, tutti quelli che vanno ad occuparsene finiscono con un avviso di garanzia. È evidente che esiste un problema. Io sono molto realista, non mi faccio troppe illusioni sulla natura umana, sebbene ci siano ovviamente persone integerrime.»

La riforma costituzionale di Renzi: un passo avanti verso l’autoritarismo o verso un Paese moderno?

«Io sono dell’idea che cambiare la Costituzione, che è una macchina veramente complessa, debba essere compito delle Assemblee costituenti: cento persone di alto livello, scelte tra giuristi ecc., votate con il sistema proporzionale purissimo, e con un paio di anni di tempo per sistemare la legge fondamentale dello Stato, che effettivamente nacque in un periodo in cui si rese necessario ridurre il potere decisionista del governo. Ora i tempi sono diversi. Questa sarebbe secondo me la via maestra da seguire, ma mi rendo conto che in Italia fare le cose semplici e dirette è praticamente impossibile. Eppure in questo modo si eviterebbe molta confusione. Il Senato, per esempio, non ho capito perché non lo abbiano proprio abolito. Sono favorevolissimo invece alla riduzione del potere delle Regioni, che hanno dato una pessima prova di sé. L’Italia è il Paese dei Comuni per eccellenza.»

A proposito di riforme e modernità, ha individuato un erede politico di Marco Pannella in tema di lotte civili?

«Questa è una bella domanda. Probabilmente in futuro emergerà qualcuno. Pannella è stato una figura unica e straripante. Nell’immediato la prima persona che mi viene in mente come leader ed erede naturale è Emma Bonino, anche se negli ultimi tempi i loro rapporti erano cambiati.»

È soddisfatto dell’operato della Ue? O meglio, quale Europa dovremmo avere?

«Non mi piace che l’idea di Europa sia legata solo ad una moneta, a qualcosa che ci ricorda le tasse e le regole imposte. In tanti anni non siamo riusciti ad associare la Ue a qualcosa di positivo, e di fatto questa non esiste, è un insieme di organismi nazionali. Una volta, per provocazione, in un articolo proposi un’unica squadra europea alle Olimpiadi, formata dalle eccellenze dei vari Stati riunite sotto un’unica bandiera. La vera Europa, in futuro, credo che la farà la generazione Erasmus, quei giovani che oggi sono abituati a girare e per i quali non esistono confini.»

Si parla tanto di giovani e futuro, appunto. Un futuro senza pensione e pieno di insicurezze. Se lei avesse un figlio della “generazione perduta”, nata dagli anni Ottanta in poi, cosa gli direbbe?

«Cercherei probabilmente di capire quale sia il suo talento e proverei ad indirizzarlo su quella strada, qualunque esso sia. Certo sappiamo che ciò per cui studi non si tramuta sempre in un mestiere, specialmente nell’area umanistica. La tecnologia e il lavoro a distanza stanno rimescolando ancora di più le carte in tavola. Purtroppo per il futuro, ahimè, non ho ricette ad hoc.»

Gli studi milanesi della Rai si stanno svuotando. Ci avviciniamo all’uscita, ma c’è ancora tempo per commentare il risultato parziale della finale di Coppa Italia, in corso tra Juventus e Milan: «Speriamo che non vincano i cattivi», commenta Gramellini, da sempre tifoso del Toro. Speranza vana: i “cattivi” avrebbero vinto anche stavolta.