Mare Cinese, l’Eldorado che tutti vogliono
I Paesi asiatici si contendono l’area più ricca e promettente per l’economia dei prossimi anni. Ma a mettere radici è il gigante cinese
Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan. E la Cina che nel frattempo controlla tutto. Nel Mar Cinese Meridionale si sta combattendo una sottile guerra di nervi, per l’egemonia di una zona dal valore economico e strategico fondamentale. È il mare che circonda la barriera corallina di Fiery Cross, per Pechino “Yongshu”, situata a largo di parte della costa vietnamita, davanti ai territori di Malesia e Filippine. Gruppi di piccole isole disabitate ma ricche di risorse naturali, come le Paracel e le Spratly, sono da anni al centro di un’ulteriore contesa mai risolta. Un’area la cui presenza cinese, sebbene in termini assai diversi da quelli di oggi, risale al 1988, quando sotto l’egida dell’Unesco venne costruito un osservatorio per il monitoraggio meteorologico e del livello del mare. Qui transitano ogni anno merci per un valore di 5mila miliardi di dollari, e sotto le acque pare ci siano i tesori più preziosi: petrolio e gas.
La mossa cinese Già da anni i vicini asiatici, in particolare Vietnam e Filippine, accusano la Cina di voler dominare senza diritti effettivi quel tratto di mare, e di colonizzarlo anche per futuri scopi militari. E gli Usa da tempo si dicono «preoccupati» per un atto di forza e prepotenza nei confronti di Paesi più piccoli. Solo qualche giorno fa, in nome della libertà di navigazione (e per «sfidare le eccessive rivendicazioni di qualche Paese sul Mar Cinese Meridionale»), una nave da guerra statunitense ha violato il territorio che i cinesi ritengono di loro competenza, e sul quale stanno costruendo una vera e propria oasi di cemento. Pechino ridimensiona la cosa e parla di prove di funzionamento di aerei e di attività a scopo civile, per la «salvaguardia della nostra legittima sovranità». Ma le immagini dal satellite mostrano chiaramente una base commerciale e aero-navale, con piste di atterraggio, banchine per l’attracco delle navi, edifici di ogni tipo. L’isola artificiale, nata dal nulla sulla barriera e creata con sabbia, ferro e cemento, ha superato i 3 chilometri quadrati di estensione. E non è l’unica costruita nel sud del Mar Cinese (immaginate soltanto i danni ambientali all’ecosistema). Le 12 miglia marine controllate dalle navi cinesi consentono il dominio di un corridoio commerciale aperto sia verso il Pacifico sia in direzione dell’Oceano Indiano, e quindi dell’Europa. Non solo: la presenza del gigante asiatico nella zona bilancia in qualche modo il vicino potere commerciale di Giappone e Corea del Sud, nonché la presenza delle basi americane nel Pacifico.
A chi appartiene la Fiery Cross Reef? A contendersi la proprietà di questi atolli, isole e barriere, in attesa dell’arbitrato del Tribunale Internazionale dell’Aja, sono principalmente Cina, Vietnam e Filippine. La Cina afferma che l’area appare come proprio territorio in una mappa del 1947, ma è la stessa tesi che sposa Taiwan. Il governo vietnamita invece rivendica le isole Spratly e i dintorni sin dal 1600, e accusa la Cina di aver usurpato la sovranità, appunto negli anni Quaranta. Le Filippine, d’altra parte, si appellano alla vicinanza della Fiery Cross Reef ai loro confini. Anche Malesia e Brunei, infine, reclamano alcune isole che si trovano teoricamente all’interno della loro zona economica esclusiva, proclamata dalla Convenzione dell’Onu sul diritto del mare (Unclos). Numerosi gli episodi di attrito tra i Paesi: nel 2011, per esempio, le navi cinesi hanno interrotto per due volte i tubi che permettevano il perforamento del sottosuolo marino e l’estrazione di petrolio in una zona contestata, suscitando le proteste formali del Vietnam.
Vietnam, Filippine, Malesia, Taiwan. E la Cina che nel frattempo controlla tutto. Nel Mar Cinese Meridionale si sta combattendo una sottile guerra di nervi, per l’egemonia di una zona dal valore economico e strategico fondamentale. È il mare che circonda la barriera corallina di Fiery Cross, per Pechino “Yongshu”, situata a largo di parte della costa vietnamita, davanti ai territori di Malesia e Filippine. Gruppi di piccole isole disabitate ma ricche di risorse naturali, come le Paracel e le Spratly, sono da anni al centro di un’ulteriore contesa mai risolta. Un’area la cui presenza cinese, sebbene in termini assai diversi da quelli di oggi, risale al 1988, quando sotto l’egida dell’Unesco venne costruito un osservatorio per il monitoraggio meteorologico e del livello del mare. Qui transitano ogni anno merci per un valore di 5mila miliardi di dollari, e sotto le acque pare ci siano i tesori più preziosi: petrolio e gas.
La mossa cinese Già da anni i vicini asiatici, in particolare Vietnam e Filippine, accusano la Cina di voler dominare senza diritti effettivi quel tratto di mare, e di colonizzarlo anche per futuri scopi militari. E gli Usa da tempo si dicono «preoccupati» per un atto di forza e prepotenza nei confronti di Paesi più piccoli. Solo qualche giorno fa, in nome della libertà di navigazione (e per «sfidare le eccessive rivendicazioni di qualche Paese sul Mar Cinese Meridionale»), una nave da guerra statunitense ha violato il territorio che i cinesi ritengono di loro competenza, e sul quale stanno costruendo una vera e propria oasi di cemento. Pechino ridimensiona la cosa e parla di prove di funzionamento di aerei e di attività a scopo civile, per la «salvaguardia della nostra legittima sovranità». Ma le immagini dal satellite mostrano chiaramente una base commerciale e aero-navale, con piste di atterraggio, banchine per l’attracco delle navi, edifici di ogni tipo. L’isola artificiale, nata dal nulla sulla barriera e creata con sabbia, ferro e cemento, ha superato i 3 chilometri quadrati di estensione. E non è l’unica costruita nel sud del Mar Cinese (immaginate soltanto i danni ambientali all’ecosistema). Le 12 miglia marine controllate dalle navi cinesi consentono il dominio di un corridoio commerciale aperto sia verso il Pacifico sia in direzione dell’Oceano Indiano, e quindi dell’Europa. Non solo: la presenza del gigante asiatico nella zona bilancia in qualche modo il vicino potere commerciale di Giappone e Corea del Sud, nonché la presenza delle basi americane nel Pacifico.
A chi appartiene la Fiery Cross Reef? A contendersi la proprietà di questi atolli, isole e barriere, in attesa dell’arbitrato del Tribunale Internazionale dell’Aja, sono principalmente Cina, Vietnam e Filippine. La Cina afferma che l’area appare come proprio territorio in una mappa del 1947, ma è la stessa tesi che sposa Taiwan. Il governo vietnamita invece rivendica le isole Spratly e i dintorni sin dal 1600, e accusa la Cina di aver usurpato la sovranità, appunto negli anni Quaranta. Le Filippine, d’altra parte, si appellano alla vicinanza della Fiery Cross Reef ai loro confini. Anche Malesia e Brunei, infine, reclamano alcune isole che si trovano teoricamente all’interno della loro zona economica esclusiva, proclamata dalla Convenzione dell’Onu sul diritto del mare (Unclos). Numerosi gli episodi di attrito tra i Paesi: nel 2011, per esempio, le navi cinesi hanno interrotto per due volte i tubi che permettevano il perforamento del sottosuolo marino e l’estrazione di petrolio in una zona contestata, suscitando le proteste formali del Vietnam.