Trent’anni fa Chernobyl. Memoria di una tragedia senza fine
Nel 1986 il disastro nucleare più grave della storia. Che tra silenzi e macabre gite turistiche riguarda ancora più di cinque milioni di persone
Su Wikipedia, oltre al nome-simbolo di una catastrofe che fa ancora rabbrividire, Chernobyl è “una città dell’Ucraina settentrionale a 100 km da Kiev”, abitata da 704 anime. Sono gli anziani che non se ne sono voluti andare, e gli operai che da 30 anni esatti, così come altre centinaia di pendolari, si occupano della manutenzione della ex centrale nucleare, a pochi chilometri di distanza. Assieme a loro, i gruppi organizzati di turisti, che per non meno di 150 dollari si fanno impunemente fotografare tra scheletri di edifici e alberi che un tempo dovevano essere verdi e rigogliosi. La centrale “Vladimir Ilych Lenin”, il cui tristemente noto reattore 4 esplose seminando malattia e morte e gettando nel panico il mondo intero, ha smesso di funzionare completamente solo nel 2000, ma gli impianti vanno controllati e predisposti di continuo ad una bonifica che di fatto non avrà mai fine. All’epoca il disastro, causato secondo la maggior parte delle ricostruzioni da errore umano, investì più o meno direttamente il 42 per cento del territorio europeo, Italia compresa, ed è fermo ed inquietante ricordo nella mente di almeno due generazioni.
La tragedia Quella notte del 26 aprile 1986 si scatenò un inferno 100 volte superiore (in termini di contaminazione ambientale) alle due esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Dopo lo scoperchiamento del reattore e la fuoriuscita del materiale, le radiazioni erano un miliardo di volte superiori a quelle ritrovabili in natura, nelle pietre. Sessantacinque tecnici morirono in poco tempo, altre quattromila persone persero la vita nei mesi successivi. Dopo una prima «temporanea» evacuazione di oltre 300mila abitanti, compresi quelli delle cittadine di Chernobyl e Pripjat (quest’ultima oggi è una città fantasma), il governo sovietico ammise la gravità della situazione e inviò sul posto circa 800mila “liquidatori”, riparati da inutili mascherine, che riuscirono a far cessare il vapore radioattivo fuoriuscito dall’impianto solo il 10 di maggio. Gli oltre mille veicoli usati nelle operazioni successive all’incidente, come ambulanze, camion, gru ed elicotteri, furono abbandonati in un’area che ancora oggi è una sorta di macabro cimitero di lamiere radioattive. Tra i “liquidatori” pompieri, operai, minatori, contadini e giovani volontari che subirono sul loro corpo gli effetti devastanti delle radiazioni. Molti di loro, in un’età compresa tra i 18 e i 22 anni, morirono nei decenni successivi; mentre non esistono cifre attendibili su quanti siano sopravvissuti: «Eravamo cresciuti con l’ideale della Madre patria, di dare la vita per il proprio Paese – ha raccontato a “Usa Today” uno di loro, Sergey Krasilnikov – e quando avvenne il disastro ci precipitammo per dare una mano. Nessuno realizzò il pericolo delle radiazioni, erano invisibili e non avevano odore. Non avevamo nessuna protezione». Il reattore esploso negli anni seguenti venne incapsulato in un sarcofago di cemento e ferro; entro un anno verrà sostituito da una nuova struttura in acciaio inossidabile costata quasi un miliardo di dollari, la New Safe Confinement, che servirà a trattenere meglio le emissioni di plutonio ed altri materiali e sarà efficace, secondo i tecnici, almeno per un secolo. Di smantellare il guscio interno ed estrarre il combustibile nucleare, però, nemmeno si parla.
I dati Le statistiche sulle conseguenze per la salute da qui ad altri 50 anni oscillano dalle 4mila morti presunte, stimate dall’Onu, fino ai sei milioni su scala globale, ipotizzate da Greenpeace. Ma la macabra certezza è che nell’area di Chernobyl e nelle regioni circostanti le radiazioni, seppur fortemente diminuite, non abbandoneranno acqua, aria e terreno per migliaia di anni. Basti pensare che le tracce radioattive restano in natura per un tempo che arriva fino a 24mila anni. E altrettanto agghiaccianti sono i dati su chi nel 1986 aveva meno di diciotto anni e anche sulle generazioni successive: centinaia di migliaia di persone hanno gravi patologie (da sindromi croniche, a tumori, a malattie genetiche), più di cinque milioni di abitanti tra Ucraina, Russia e Bielorussia vivono in aree colpite da radiazioni, e nel 2006 è stato raggiunto il picco di casi di tumore alla tiroide tra bambini e adolescenti, venti anni dopo il disastro.
Il paradosso della Bielorussia Come se la lezione non fosse servita, la martoriata Bielorussia, contaminata secondo gli esperti per il 99 per cento della sua superficie (le autorità di Minsk ovviamente minimizzano), sta progettando la costruzione della prima centrale nucleare del Paese. Quantomeno curioso per una Nazione che paga e pagherà ancora pesantemente le conseguenze di Chernobyl. Come dimostrano svariate ricerche, qui la mortalità supera la natalità, e negli ultimi decenni gli incrementi negativi dei casi di malattie gravi non lasciano dubbi: 2400 per cento per il cancro alla tiroide, 250 per cento per le malformazioni genetiche, e così via. Nelle aree maggiormente contaminate si è registrato l’aumento del 1000 per cento di suicidi.
Su Wikipedia, oltre al nome-simbolo di una catastrofe che fa ancora rabbrividire, Chernobyl è “una città dell’Ucraina settentrionale a 100 km da Kiev”, abitata da 704 anime. Sono gli anziani che non se ne sono voluti andare, e gli operai che da 30 anni esatti, così come altre centinaia di pendolari, si occupano della manutenzione della ex centrale nucleare, a pochi chilometri di distanza. Assieme a loro, i gruppi organizzati di turisti, che per non meno di 150 dollari si fanno impunemente fotografare tra scheletri di edifici e alberi che un tempo dovevano essere verdi e rigogliosi. La centrale “Vladimir Ilych Lenin”, il cui tristemente noto reattore 4 esplose seminando malattia e morte e gettando nel panico il mondo intero, ha smesso di funzionare completamente solo nel 2000, ma gli impianti vanno controllati e predisposti di continuo ad una bonifica che di fatto non avrà mai fine. All’epoca il disastro, causato secondo la maggior parte delle ricostruzioni da errore umano, investì più o meno direttamente il 42 per cento del territorio europeo, Italia compresa, ed è fermo ed inquietante ricordo nella mente di almeno due generazioni.
La tragedia Quella notte del 26 aprile 1986 si scatenò un inferno 100 volte superiore (in termini di contaminazione ambientale) alle due esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Dopo lo scoperchiamento del reattore e la fuoriuscita del materiale, le radiazioni erano un miliardo di volte superiori a quelle ritrovabili in natura, nelle pietre. Sessantacinque tecnici morirono in poco tempo, altre quattromila persone persero la vita nei mesi successivi. Dopo una prima «temporanea» evacuazione di oltre 300mila abitanti, compresi quelli delle cittadine di Chernobyl e Pripjat (quest’ultima oggi è una città fantasma), il governo sovietico ammise la gravità della situazione e inviò sul posto circa 800mila “liquidatori”, riparati da inutili mascherine, che riuscirono a far cessare il vapore radioattivo fuoriuscito dall’impianto solo il 10 di maggio. Gli oltre mille veicoli usati nelle operazioni successive all’incidente, come ambulanze, camion, gru ed elicotteri, furono abbandonati in un’area che ancora oggi è una sorta di macabro cimitero di lamiere radioattive. Tra i “liquidatori” pompieri, operai, minatori, contadini e giovani volontari che subirono sul loro corpo gli effetti devastanti delle radiazioni. Molti di loro, in un’età compresa tra i 18 e i 22 anni, morirono nei decenni successivi; mentre non esistono cifre attendibili su quanti siano sopravvissuti: «Eravamo cresciuti con l’ideale della Madre patria, di dare la vita per il proprio Paese – ha raccontato a “Usa Today” uno di loro, Sergey Krasilnikov – e quando avvenne il disastro ci precipitammo per dare una mano. Nessuno realizzò il pericolo delle radiazioni, erano invisibili e non avevano odore. Non avevamo nessuna protezione». Il reattore esploso negli anni seguenti venne incapsulato in un sarcofago di cemento e ferro; entro un anno verrà sostituito da una nuova struttura in acciaio inossidabile costata quasi un miliardo di dollari, la New Safe Confinement, che servirà a trattenere meglio le emissioni di plutonio ed altri materiali e sarà efficace, secondo i tecnici, almeno per un secolo. Di smantellare il guscio interno ed estrarre il combustibile nucleare, però, nemmeno si parla.
I dati Le statistiche sulle conseguenze per la salute da qui ad altri 50 anni oscillano dalle 4mila morti presunte, stimate dall’Onu, fino ai sei milioni su scala globale, ipotizzate da Greenpeace. Ma la macabra certezza è che nell’area di Chernobyl e nelle regioni circostanti le radiazioni, seppur fortemente diminuite, non abbandoneranno acqua, aria e terreno per migliaia di anni. Basti pensare che le tracce radioattive restano in natura per un tempo che arriva fino a 24mila anni. E altrettanto agghiaccianti sono i dati su chi nel 1986 aveva meno di diciotto anni e anche sulle generazioni successive: centinaia di migliaia di persone hanno gravi patologie (da sindromi croniche, a tumori, a malattie genetiche), più di cinque milioni di abitanti tra Ucraina, Russia e Bielorussia vivono in aree colpite da radiazioni, e nel 2006 è stato raggiunto il picco di casi di tumore alla tiroide tra bambini e adolescenti, venti anni dopo il disastro.
Il paradosso della Bielorussia Come se la lezione non fosse servita, la martoriata Bielorussia, contaminata secondo gli esperti per il 99 per cento della sua superficie (le autorità di Minsk ovviamente minimizzano), sta progettando la costruzione della prima centrale nucleare del Paese. Quantomeno curioso per una Nazione che paga e pagherà ancora pesantemente le conseguenze di Chernobyl. Come dimostrano svariate ricerche, qui la mortalità supera la natalità, e negli ultimi decenni gli incrementi negativi dei casi di malattie gravi non lasciano dubbi: 2400 per cento per il cancro alla tiroide, 250 per cento per le malformazioni genetiche, e così via. Nelle aree maggiormente contaminate si è registrato l’aumento del 1000 per cento di suicidi.