Aborto, sentenza dell'Europa: in Italia violato il diritto alla salute
Strasburgo accoglie un ricorso dei sindacati e conferma strutture carenti e la discriminazione nei confronti dei medici non obiettori
Il Consiglio d’Europa critica ancora il nostro Paese. Per la seconda volta su un tema delicato come quello dell’aborto: «In Italia accedere legalmente a questo servizio è troppo complesso, e così facendo si vìola il diritto alla salute delle donne», spiega il Comitato europeo dei servizi sociali, che è intervenuto dopo un ricorso in materia presentato dalla Cgil. Nonostante una legge che, con tutti i suoi difetti, è lì, nero su bianco, da quasi quarant’anni, per una donna interrompere una gravidanza è un vero e proprio calvario burocratico, che si aggiunge a quello psicologico e fisico.
Gli ostacoli La sentenza di Strasburgo è chiara e decisa: le strutture in cui si può praticare l’aborto stanno diminuendo, hanno adottato misure inadeguate e non sono in grado di sostituire il personale quando un operatore va in ferie o in pensione. Ma soprattutto, «i centri sanitari italiani non hanno rimediato alle carenze nel servizio causate dai medici che invocano il diritto all’obiezione di coscienza». Questo comporta inevitabilmente scelte difficili: «In alcuni casi, considerata l’urgenza delle procedure richieste, le donne che vogliono un aborto possono essere forzate ad andare all’estero o in strutture private, o a mettere fine alla loro gravidanza senza il sostegno e il controllo delle competenti autorità sanitarie, oppure possono essere dissuase dall’accedere a servizi a cui invece hanno diritto in base alla legge del 1978». La conseguenza peggiore di questo trend, più volte denunciato dai media e ora confermato anche dal Comitato europeo, è l’aumento degli aborti clandestini, una vergogna che nel XXI secolo non dovrebbe accadere in un Paese laico e civile.
Il problema dell’obiezione La scelta in coscienza del medico è prevista dalla legge 194 (che parla in ogni caso di aborto per problemi e compromissione della salute della madre e del feto), ma al numero altissimo di dottori che si rifiutano di eseguire interventi di questo tipo non corrisponde un numero sufficiente di medici che possono assistere una donna nell’interruzione di gravidanza. Anzi, chi non si avvale del rifiuto “ideologico” è al centro di discriminazioni lavorative: «La Cgil ha fornito ampie prove – continua il Consiglio d’Europa – che dimostrano come il personale medico non obiettore affronti svantaggi diretti e indiretti, in termini di carico di lavoro, distribuzione degli incarichi, opportunità di carriera. Il governo italiano non ha dimostrato che la discriminazione non sia diffusa». Siamo di fronte, quindi, in Italia, all’ennesimo divario tra una legge e la sua applicazione. I ginecologi obiettori di coscienza sono sempre di più, e le percentuali arrivano ad essere altissime nelle regioni del Centro-Sud: parliamo di un 90,2 per cento in Basilicata e addirittura di un 93,3 per cento in Molise. In Sicilia fa questa scelta l’87,6 per cento, in Puglia l’86,1 per cento; e i dati sono molto simili in Campania (81,8), Lazio e Abruzzo (80,7). La regione con la percentuale minore è la Valle d’Aosta, con appena un 13,3 per cento. La media italiana è ben del 70 per cento, con un aumento di dieci punti tra il 2006 e il 2013. Di fatto, quattro ospedali pubblici su dieci non applicano la legge 194.
Il Consiglio d’Europa critica ancora il nostro Paese. Per la seconda volta su un tema delicato come quello dell’aborto: «In Italia accedere legalmente a questo servizio è troppo complesso, e così facendo si vìola il diritto alla salute delle donne», spiega il Comitato europeo dei servizi sociali, che è intervenuto dopo un ricorso in materia presentato dalla Cgil. Nonostante una legge che, con tutti i suoi difetti, è lì, nero su bianco, da quasi quarant’anni, per una donna interrompere una gravidanza è un vero e proprio calvario burocratico, che si aggiunge a quello psicologico e fisico.
Gli ostacoli La sentenza di Strasburgo è chiara e decisa: le strutture in cui si può praticare l’aborto stanno diminuendo, hanno adottato misure inadeguate e non sono in grado di sostituire il personale quando un operatore va in ferie o in pensione. Ma soprattutto, «i centri sanitari italiani non hanno rimediato alle carenze nel servizio causate dai medici che invocano il diritto all’obiezione di coscienza». Questo comporta inevitabilmente scelte difficili: «In alcuni casi, considerata l’urgenza delle procedure richieste, le donne che vogliono un aborto possono essere forzate ad andare all’estero o in strutture private, o a mettere fine alla loro gravidanza senza il sostegno e il controllo delle competenti autorità sanitarie, oppure possono essere dissuase dall’accedere a servizi a cui invece hanno diritto in base alla legge del 1978». La conseguenza peggiore di questo trend, più volte denunciato dai media e ora confermato anche dal Comitato europeo, è l’aumento degli aborti clandestini, una vergogna che nel XXI secolo non dovrebbe accadere in un Paese laico e civile.
Il problema dell’obiezione La scelta in coscienza del medico è prevista dalla legge 194 (che parla in ogni caso di aborto per problemi e compromissione della salute della madre e del feto), ma al numero altissimo di dottori che si rifiutano di eseguire interventi di questo tipo non corrisponde un numero sufficiente di medici che possono assistere una donna nell’interruzione di gravidanza. Anzi, chi non si avvale del rifiuto “ideologico” è al centro di discriminazioni lavorative: «La Cgil ha fornito ampie prove – continua il Consiglio d’Europa – che dimostrano come il personale medico non obiettore affronti svantaggi diretti e indiretti, in termini di carico di lavoro, distribuzione degli incarichi, opportunità di carriera. Il governo italiano non ha dimostrato che la discriminazione non sia diffusa». Siamo di fronte, quindi, in Italia, all’ennesimo divario tra una legge e la sua applicazione. I ginecologi obiettori di coscienza sono sempre di più, e le percentuali arrivano ad essere altissime nelle regioni del Centro-Sud: parliamo di un 90,2 per cento in Basilicata e addirittura di un 93,3 per cento in Molise. In Sicilia fa questa scelta l’87,6 per cento, in Puglia l’86,1 per cento; e i dati sono molto simili in Campania (81,8), Lazio e Abruzzo (80,7). La regione con la percentuale minore è la Valle d’Aosta, con appena un 13,3 per cento. La media italiana è ben del 70 per cento, con un aumento di dieci punti tra il 2006 e il 2013. Di fatto, quattro ospedali pubblici su dieci non applicano la legge 194.