Yemen, Libia, Nigeria: quelle bombe italiane che uccidono nel mondo - Diritto di critica
Mentre si guarda alla Siria, l’Italia arma un altro conflitto in Medio Oriente. Ed è sempre tra i primi esportatori di armi al mondo
Partono di notte dall’aeroporto di Cagliari, dal porto di Olbia, o da quello di Piombino. Sono le armi di fabbricazione italiana con cui l’Arabia Saudita colpisce lo Yemen e i suoi civili, in una guerra dimenticata da tutti. Solo qualche giorno fa sono arrivate nel porto toscano, scortate dalle forze dell’ordine, 1000 bombe Mk83, prodotte nei cantieri sardi della RWM, e dirette via mare alla base militare saudita di Taif. Il traffico è inarrestabile, nonostante gli appelli di Amnesty International Italia (tra le altre associazioni) e di alcuni esponenti politici che da settimane chiedono al governo di interrompere l’invio. Un invio di bombe «vietate dall’Onu e la cui compravendita va contro la normativa italiana», aveva denunciato il deputato indipendente Mauro Pili. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha telegraficamente ribadito che la spedizione delle armi avviene nel rispetto della legge e secondo regolari contratti commerciali, ma questo stride con gli accordi internazionali sull’esportazione di materiale bellico che l’Italia ha platealmente sottoscritto, così come altri Paesi.
La legge del 1990 Oltre al Trattato Internazionale sul commercio delle armi (valido da circa un anno), che prevede “il divieto di trasferimento delle armi in aree dove vi siano rischi concreti del loro utilizzo in violazione dei diritti umani”, nel nostro Paese è attualmente in vigore, illustrando lo stesso principio, la legge 185 del 1990, che proibisce anche, “nuove delibere delle Camere a parte, l’esportazione di armamenti verso Nazioni in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”, ovvero quelli della legittima difesa come eccezione al divieto dell’uso della forza. Il regolamento vieta inoltre la vendita di strumenti bellici a Paesi particolarmente poveri ed indebitati. Il coinvolgimento indiretto italiano nelle guerre è derivante principalmente da motivazioni di ordine economico e diplomatico (ricordiamo l’alleanza che l’Italia ha, di fatto, con l’Arabia Saudita). Ma va a scontrarsi inevitabilmente con i principi e la difesa dei diritti umani e della libertà: «L’intervento dei sauditi nello Yemen, inoltre – sottolinea Amnesty International – non è stato in nessun modo legittimato né autorizzato dall’Onu».
Lo Yemen e gli altri Come denunciano i giornalisti di Reported.ly e gli osservatori della ONG Human Rights Watch, nel tremendo conflitto in atto nello Yemen sono state ritrovate numerose armi di fabbricazione italiana, come le temibili bombe Mk83, che possono provocare “gravi lesioni a causa dell’effetto di deflagrazione e frammentazione”. Nell’inchiesta si sottolinea anche come “molti fondi d’investimento occidentali, tra cui fondi pensione e fondi pubblici, traggano beneficio dalla vendita di queste armi perché in possesso di azioni della Rheinmetall Defense Ag, la società che controlla la RWM”. Dalla scorsa primavera, nello Stato orientale, dove è in corso una guerra contro i ribelli houti, sono rimasti uccisi più di 5mila civili, tra cui centinaia di bambini. Decine di migliaia i feriti e oltre un milione gli sfollati. Ma le armi italiane sono arrivate anche in Libia, Nigeria, Iraq, Ucraina, Israele, Libano, ed altri Paesi dilaniati dalle guerre.
Un mercato sempre florido Nel 2014 l’Italia ha esportato armi leggere (pistole, fucili) per 453 milioni di euro, e ne ha inviate complessivamente (ogni tipo di arma) per circa 2 miliardi e 600 milioni di euro, il 28 per cento dirette in aree calde come l’Africa settentrionale e il Medio Oriente. L’arsenale che vendiamo nel mondo è costituito (veicoli a parte) da bombe d’aereo del tipo Mk, bombe penetranti come le Blu-109/B (in grado di perforare velivoli corazzati, e le cui particelle espongono a gravi malattie), testate per missili, mine marine, siluri, munizioni e spolette.
Partono di notte dall’aeroporto di Cagliari, dal porto di Olbia, o da quello di Piombino. Sono le armi di fabbricazione italiana con cui l’Arabia Saudita colpisce lo Yemen e i suoi civili, in una guerra dimenticata da tutti. Solo qualche giorno fa sono arrivate nel porto toscano, scortate dalle forze dell’ordine, 1000 bombe Mk83, prodotte nei cantieri sardi della RWM, e dirette via mare alla base militare saudita di Taif. Il traffico è inarrestabile, nonostante gli appelli di Amnesty International Italia (tra le altre associazioni) e di alcuni esponenti politici che da settimane chiedono al governo di interrompere l’invio. Un invio di bombe «vietate dall’Onu e la cui compravendita va contro la normativa italiana», aveva denunciato il deputato indipendente Mauro Pili. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti, ha telegraficamente ribadito che la spedizione delle armi avviene nel rispetto della legge e secondo regolari contratti commerciali, ma questo stride con gli accordi internazionali sull’esportazione di materiale bellico che l’Italia ha platealmente sottoscritto, così come altri Paesi.
La legge del 1990 Oltre al Trattato Internazionale sul commercio delle armi (valido da circa un anno), che prevede “il divieto di trasferimento delle armi in aree dove vi siano rischi concreti del loro utilizzo in violazione dei diritti umani”, nel nostro Paese è attualmente in vigore, illustrando lo stesso principio, la legge 185 del 1990, che proibisce anche, “nuove delibere delle Camere a parte, l’esportazione di armamenti verso Nazioni in stato di conflitto armato, in contrasto con i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite”, ovvero quelli della legittima difesa come eccezione al divieto dell’uso della forza. Il regolamento vieta inoltre la vendita di strumenti bellici a Paesi particolarmente poveri ed indebitati. Il coinvolgimento indiretto italiano nelle guerre è derivante principalmente da motivazioni di ordine economico e diplomatico (ricordiamo l’alleanza che l’Italia ha, di fatto, con l’Arabia Saudita). Ma va a scontrarsi inevitabilmente con i principi e la difesa dei diritti umani e della libertà: «L’intervento dei sauditi nello Yemen, inoltre – sottolinea Amnesty International – non è stato in nessun modo legittimato né autorizzato dall’Onu».
Lo Yemen e gli altri Come denunciano i giornalisti di Reported.ly e gli osservatori della ONG Human Rights Watch, nel tremendo conflitto in atto nello Yemen sono state ritrovate numerose armi di fabbricazione italiana, come le temibili bombe Mk83, che possono provocare “gravi lesioni a causa dell’effetto di deflagrazione e frammentazione”. Nell’inchiesta si sottolinea anche come “molti fondi d’investimento occidentali, tra cui fondi pensione e fondi pubblici, traggano beneficio dalla vendita di queste armi perché in possesso di azioni della Rheinmetall Defense Ag, la società che controlla la RWM”. Dalla scorsa primavera, nello Stato orientale, dove è in corso una guerra contro i ribelli houti, sono rimasti uccisi più di 5mila civili, tra cui centinaia di bambini. Decine di migliaia i feriti e oltre un milione gli sfollati. Ma le armi italiane sono arrivate anche in Libia, Nigeria, Iraq, Ucraina, Israele, Libano, ed altri Paesi dilaniati dalle guerre.
Un mercato sempre florido Nel 2014 l’Italia ha esportato armi leggere (pistole, fucili) per 453 milioni di euro, e ne ha inviate complessivamente (ogni tipo di arma) per circa 2 miliardi e 600 milioni di euro, il 28 per cento dirette in aree calde come l’Africa settentrionale e il Medio Oriente. L’arsenale che vendiamo nel mondo è costituito (veicoli a parte) da bombe d’aereo del tipo Mk, bombe penetranti come le Blu-109/B (in grado di perforare velivoli corazzati, e le cui particelle espongono a gravi malattie), testate per missili, mine marine, siluri, munizioni e spolette.