«Siamo ancora sotto shock». L'orrore dei ragazzi di Parigi
Molti di loro hanno visto morire gli amici. Altri hanno corso per le strade e sentito la paura addosso, e provano a reagire: «La nostra è una città viva, che non accetta di essere ferita»
Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, l’attacco a Parigi fa rabbrividire e sconvolge le coscienze, specialmente quelle di un’Europa che si risveglia, di fatto, in guerra. Ma provate a pensare ai giovani della capitale, o a coloro che erano lì in vacanza. E immaginate soltanto l’angoscia di un genitore che perde il proprio figlio per averlo mandato al concerto di una rock band. O a mangiare fuori con gli amici. Il 13 novembre è stato soprattutto l’inferno dei ragazzi. Un dettaglio ancora più crudele ed insensato. Ventenni erano la maggior parte degli spettatori al teatro Bataclan, dove si stavano esibendo gli Eagles of Death Metal. I terroristi, dopo le prime mitragliate, ne hanno intrappolati un centinaio, uccidendoli uno ad uno: morire senza capirne il senso, senza avere il tempo di realizzare, poco dopo aver ballato e cantato a squarciagola tutta l’irruenza di una vita ancora agli inizi. E ragazzi erano moltissimi parigini fuori e dentro allo stadio, nei quartieri colpiti dagli attacchi, al ristorante cambogiano e al bar “Carillon”, situati in una zona che il venerdì sera è sempre affollatissima. Molti di loro hanno visto morire gli amici, e camminato accanto a decine di cadaveri coperti dai teli. Victoria, studentessa universitaria di 22 anni, è ancora traumatizzata: «Con le mie amiche eravamo alla stazione della metropolitana “Filles du Calvaire”, vicino a Place de la République, a dieci minuti dal ristorante, nel cuore del X arrondissement. Ci hanno fatto uscire alla stazione successiva e abbiamo trovato un taxi per tornare a casa. È stato terribile, vedevamo dappertutto gente impaurita che correva. Sono ancora sconvolta, un’amica della mia compagna di corso era nel ristorante cambogiano, è stata uccisa da una pallottola alla testa». Un orrore mitigato solo dalla grande solidarietà che gli abitanti di Parigi hanno dimostrato gli uni per gli altri, in una notte senza fine.
Lia, animatrice di 34 anni, nata in Toscana ma da anni trasferita nella metropoli francese, era a casa ed è rimasta ore al telefono con un’amica che si trovava per strada: «Ho capito che non voleva stare sola, e l’ho accompagnata con la mia voce fino a quando non è rientrata nel suo appartamento. Ho chiamato anche tutti i miei amici che sapevo essere in giro per la città, ma non si rendevano conto di cosa stesse realmente accadendo. Alcuni si sono rifugiati da altri amici, fuori dai quartieri a rischio, altri sono riusciti a rientrare sani e salvi». Il giorno dopo tutto è surreale, Parigi è un deserto: «Mi sembra di vivere un incubo, è tutto chiuso e la poca gente per strada è come sotto ipnosi».
Ma c’è uno spiraglio di luce? «La città non accetta di essere ferita, si sente in trappola e sta cercando una via d’uscita – continua Lia – ma come sarà possibile se c’è ancora una cultura dell’odio, se la polizia non accede alle zone periferiche per paura? Io lavoro tutti i giorni con francesi e arabi, non c’è un sentimento di avversione verso culture e religioni diverse, ma l’amara consapevolezza di una falsa integrazione. È l’ignoranza che causa tutto questo, basterebbe educare ed istruire alla tolleranza con pazienza e amore. A Parigi come altrove, i quartieri dividono e isolano, bisogna ancora lavorare». Ironia della sorte, anche alcuni dei kamikaze che si sono fatti esplodere assieme alle bombe erano ventenni, francesi. Segno che per combattere ed estirpare l’odio bisogna andare alla sua radice, senza arrivare semplicemente a constatare il fallimento e la paura di una generazione intera, sempre più fragile verso il futuro.
Da qualsiasi punto di vista lo si guardi, l’attacco a Parigi fa rabbrividire e sconvolge le coscienze, specialmente quelle di un’Europa che si risveglia, di fatto, in guerra. Ma provate a pensare ai giovani della capitale, o a coloro che erano lì in vacanza. E immaginate soltanto l’angoscia di un genitore che perde il proprio figlio per averlo mandato al concerto di una rock band. O a mangiare fuori con gli amici. Il 13 novembre è stato soprattutto l’inferno dei ragazzi. Un dettaglio ancora più crudele ed insensato. Ventenni erano la maggior parte degli spettatori al teatro Bataclan, dove si stavano esibendo gli Eagles of Death Metal. I terroristi, dopo le prime mitragliate, ne hanno intrappolati un centinaio, uccidendoli uno ad uno: morire senza capirne il senso, senza avere il tempo di realizzare, poco dopo aver ballato e cantato a squarciagola tutta l’irruenza di una vita ancora agli inizi. E ragazzi erano moltissimi parigini fuori e dentro allo stadio, nei quartieri colpiti dagli attacchi, al ristorante cambogiano e al bar “Carillon”, situati in una zona che il venerdì sera è sempre affollatissima. Molti di loro hanno visto morire gli amici, e camminato accanto a decine di cadaveri coperti dai teli. Victoria, studentessa universitaria di 22 anni, è ancora traumatizzata: «Con le mie amiche eravamo alla stazione della metropolitana “Filles du Calvaire”, vicino a Place de la République, a dieci minuti dal ristorante, nel cuore del X arrondissement. Ci hanno fatto uscire alla stazione successiva e abbiamo trovato un taxi per tornare a casa. È stato terribile, vedevamo dappertutto gente impaurita che correva. Sono ancora sconvolta, un’amica della mia compagna di corso era nel ristorante cambogiano, è stata uccisa da una pallottola alla testa». Un orrore mitigato solo dalla grande solidarietà che gli abitanti di Parigi hanno dimostrato gli uni per gli altri, in una notte senza fine.
Lia, animatrice di 34 anni, nata in Toscana ma da anni trasferita nella metropoli francese, era a casa ed è rimasta ore al telefono con un’amica che si trovava per strada: «Ho capito che non voleva stare sola, e l’ho accompagnata con la mia voce fino a quando non è rientrata nel suo appartamento. Ho chiamato anche tutti i miei amici che sapevo essere in giro per la città, ma non si rendevano conto di cosa stesse realmente accadendo. Alcuni si sono rifugiati da altri amici, fuori dai quartieri a rischio, altri sono riusciti a rientrare sani e salvi». Il giorno dopo tutto è surreale, Parigi è un deserto: «Mi sembra di vivere un incubo, è tutto chiuso e la poca gente per strada è come sotto ipnosi».
Ma c’è uno spiraglio di luce? «La città non accetta di essere ferita, si sente in trappola e sta cercando una via d’uscita – continua Lia – ma come sarà possibile se c’è ancora una cultura dell’odio, se la polizia non accede alle zone periferiche per paura? Io lavoro tutti i giorni con francesi e arabi, non c’è un sentimento di avversione verso culture e religioni diverse, ma l’amara consapevolezza di una falsa integrazione. È l’ignoranza che causa tutto questo, basterebbe educare ed istruire alla tolleranza con pazienza e amore. A Parigi come altrove, i quartieri dividono e isolano, bisogna ancora lavorare». Ironia della sorte, anche alcuni dei kamikaze che si sono fatti esplodere assieme alle bombe erano ventenni, francesi. Segno che per combattere ed estirpare l’odio bisogna andare alla sua radice, senza arrivare semplicemente a constatare il fallimento e la paura di una generazione intera, sempre più fragile verso il futuro.
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