A morte per la libertà, il mondo invoca clemenza per il giovane Alì - Diritto di critica
Era sceso in piazza durante le primavere arabe, per protestare contro il regime d’Arabia. Ora, a 21 anni, lo aspetta la decapitazione. Appelli di Stati e organizzazioni per la sospensione della pena
Lo schema, purtroppo, è sempre lo stesso: una condanna ingiusta, spropositata, in un Paese dove i diritti umani e civili spesso sono dei miraggi, a cui segue giustamente lo sdegno e l’impegno di associazioni come Amnesty International, ma anche quello delle nazioni occidentali nell’imbarazzante condizione di partner commerciali del Paese stesso. Ovvio che ne scaturisca una protesta formale, ma nulla più. Questa volta è l’Arabia Saudita, a condannare a morte un manifestante, Alì Mohammed al-Nimr, con la sola colpa di essere sceso in piazza durante le primavere arabe; ma lo scempio è persino peggiore, sia perché il ragazzo all’epoca non aveva ancora 18 anni (ora ne ha 21), sia perché la terribile decisione della corte saudita arriva proprio mentre un ambasciatore del Paese è stato nominato presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Scherzo del destino, macabra fatalità. Accolta però con favore dagli Stati Uniti: «Siamo stretti alleati su molti fronti – dicono dal Dipartimento di Stato americano – parleremo di diritti umani, sarà un’occasione affinché l’Arabia si guardi intorno e rifletta sulla propria situazione».
Una pena atroce Intanto, dopo tre anni di carcere, per Alì sono state ordinate la decapitazione e la crocifissione fino ad avvenuta putrefazione del corpo, un orrore che proprio Onu, Amnesty International e Reprieve, tra gli altri, tentano di fermare con appelli, interrogazioni e biasimi ufficiali: il ragazzo non ha rubato, non ha ucciso, è solo parente di un oppositore sciita del regime in carica. Nel 2012, quando i giovani musulmani di mezzo mondo scendevano in piazza pieni di speranze chiedendo giustizia e libertà, al-Nimr si unì ad un gruppo, appena diciassettenne, nella città saudita di Qatif, nell’est del Paese. Da lì l’arresto e il carcere duro di Dammam, che lo ha “accolto” con torture, privazioni, violazioni dei diritti più elementari. In attesa di una condanna che ora Francia e Gran Bretagna ripudiano a gran voce, forse troppo tardi, forse inutilmente.
I diritti calpestati Formalmente, il giudice che confermò l’arresto, tre anni fa, aveva dichiarato che il giovane “ha incoraggiato le proteste pro-democrazia usando un telefono cellulare”. La corte araba nel 2014 ha scritto invece nella sentenza che Alì “è condannato a morte per aver preso parte alle dimostrazioni contro il governo e per aver attaccato le forze dell’ordine, per rapina a mano armata e possesso di una mitragliatrice”. Inutile l’appello dei suoi legali, che il mese scorso sono ricorsi alla Corte Suprema dell’Arabia Saudita. I rappresentanti Onu per i diritti umani hanno chiesto al Paese arabo di annullare la condanna, nonché la revisione del processo: «Il diritto internazionale – hanno dichiarato – prevede che la condanna a morte sia comminata solo dopo un processo equo e giusto, che rispetti severissimi requisiti. In caso contrario, si parla di esecuzione arbitraria». Il Presidente del comitato delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo, Benyam Mezmur, ha specificato che «è inaccettabile, e incompatibile con gli obblighi internazionali sottoscritti anche dall’Arabia Saudita, imporre la pena di morte a qualcuno che era solo un ragazzino, minorenne, all’epoca dei fatti, e nei confronti del quale sono partite accuse di tortura». Il mondo trattiene in fiato, in attesa di sapere se questi appelli cadranno o no nel vuoto.
Petrolio e morte L’Arabia Saudita, regno mondiale indiscusso del petrolio e per questo in affari con le potenze del pianeta, è anche tra le Nazioni che uccidono di più: 133 condanne alla pena capitale dall’inizio dell’anno, un’esecuzione ogni due giorni.
Lo schema, purtroppo, è sempre lo stesso: una condanna ingiusta, spropositata, in un Paese dove i diritti umani e civili spesso sono dei miraggi, a cui segue giustamente lo sdegno e l’impegno di associazioni come Amnesty International, ma anche quello delle nazioni occidentali nell’imbarazzante condizione di partner commerciali del Paese stesso. Ovvio che ne scaturisca una protesta formale, ma nulla più. Questa volta è l’Arabia Saudita, a condannare a morte un manifestante, Alì Mohammed al-Nimr, con la sola colpa di essere sceso in piazza durante le primavere arabe; ma lo scempio è persino peggiore, sia perché il ragazzo all’epoca non aveva ancora 18 anni (ora ne ha 21), sia perché la terribile decisione della corte saudita arriva proprio mentre un ambasciatore del Paese è stato nominato presidente del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Scherzo del destino, macabra fatalità. Accolta però con favore dagli Stati Uniti: «Siamo stretti alleati su molti fronti – dicono dal Dipartimento di Stato americano – parleremo di diritti umani, sarà un’occasione affinché l’Arabia si guardi intorno e rifletta sulla propria situazione».
Una pena atroce Intanto, dopo tre anni di carcere, per Alì sono state ordinate la decapitazione e la crocifissione fino ad avvenuta putrefazione del corpo, un orrore che proprio Onu, Amnesty International e Reprieve, tra gli altri, tentano di fermare con appelli, interrogazioni e biasimi ufficiali: il ragazzo non ha rubato, non ha ucciso, è solo parente di un oppositore sciita del regime in carica. Nel 2012, quando i giovani musulmani di mezzo mondo scendevano in piazza pieni di speranze chiedendo giustizia e libertà, al-Nimr si unì ad un gruppo, appena diciassettenne, nella città saudita di Qatif, nell’est del Paese. Da lì l’arresto e il carcere duro di Dammam, che lo ha “accolto” con torture, privazioni, violazioni dei diritti più elementari. In attesa di una condanna che ora Francia e Gran Bretagna ripudiano a gran voce, forse troppo tardi, forse inutilmente.
I diritti calpestati Formalmente, il giudice che confermò l’arresto, tre anni fa, aveva dichiarato che il giovane “ha incoraggiato le proteste pro-democrazia usando un telefono cellulare”. La corte araba nel 2014 ha scritto invece nella sentenza che Alì “è condannato a morte per aver preso parte alle dimostrazioni contro il governo e per aver attaccato le forze dell’ordine, per rapina a mano armata e possesso di una mitragliatrice”. Inutile l’appello dei suoi legali, che il mese scorso sono ricorsi alla Corte Suprema dell’Arabia Saudita. I rappresentanti Onu per i diritti umani hanno chiesto al Paese arabo di annullare la condanna, nonché la revisione del processo: «Il diritto internazionale – hanno dichiarato – prevede che la condanna a morte sia comminata solo dopo un processo equo e giusto, che rispetti severissimi requisiti. In caso contrario, si parla di esecuzione arbitraria». Il Presidente del comitato delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo, Benyam Mezmur, ha specificato che «è inaccettabile, e incompatibile con gli obblighi internazionali sottoscritti anche dall’Arabia Saudita, imporre la pena di morte a qualcuno che era solo un ragazzino, minorenne, all’epoca dei fatti, e nei confronti del quale sono partite accuse di tortura». Il mondo trattiene in fiato, in attesa di sapere se questi appelli cadranno o no nel vuoto.
Petrolio e morte L’Arabia Saudita, regno mondiale indiscusso del petrolio e per questo in affari con le potenze del pianeta, è anche tra le Nazioni che uccidono di più: 133 condanne alla pena capitale dall’inizio dell’anno, un’esecuzione ogni due giorni.