Sorrentino maestro del dolceamaro. Ma "Youth - La giovinezza'' non convince - Diritto di critica
Ottime le prove di Caine, Keitel e Jane Fonda. Superba la fotografia. Il regista premio Oscar, però, sembra fermo su se stesso.
Chi pensava, vedendo due anziani disincantati che ricordano la loro vita in una stazione termale svizzera, che con il titolo “Youth – La giovinezza” Sorrentino ci “prendesse in giro”, si è sbagliato di grosso. Youth è un film sulla giovinezza. Nelle sue più disparate e disperate declinazioni. E sul tempo: «È l’unico soggetto possibile – ha spiegato il regista a Cannes – il tempo è l’unica cosa che ci interessa veramente, quanto ne passa e quanto ce ne rimane. Ma a qualsiasi età se si riesce a mantenere uno sguardo sul futuro si può essere giovani. Per questo è un film molto ottimista».
C’è la giovinezza ammirata nelle forme di Miss Universo, quella rimpianta nei ricordi di due amici artisti, quella reale e disorientata che si esprime attraverso un attore in cerca di ispirazione, e nell’infelicità della figlia del protagonista, da poco lasciata dal marito. Accanto a loro, altre esistenze appena accennate: un alpinista solitario, una massaggiatrice che cerca ogni sera la propria felicità ballando nella sua camera, una giovane squillo dell’albergo dallo sguardo perso. E perfino la brutta copia di Diego Armando Maradona che si trascina goffamente da una piscina all’altra, tentando di ritrovare il perduto benessere psico-fisico.
Dopo l’assordante mondanità di Roma, la malinconica umanità sorrentiniana, fatta di individui fondamentalmente soli, trova posto nella silenziosa Svizzera dei centri termali incastonati tra le montagne, una Svizzera geometrica e patinata, ma fredda e dolente. Al centro, la vita e i segreti dell’anaffettivo e cinico Fred Balinger (Michael Caine), famosissimo direttore d’orchestra in pensione, ora dedito all’apatia (“le emozioni sono sopravvalutate”). Il film porta a riflettere sugli anni che passano, le scelte, gli errori e le stravaganze (“la leggerezza è anche perversione”), ma al di là della bravura degli attori (strepitosa l’apparizione di Jane Fonda nel ruolo, forse un po’ scontato, di un’attrice dell’età d’oro hollywoodiana) e dei virtuosismi tecnici, “Youth” non riesce a decollare e sembra accartocciarsi su se stesso. L’impressione è che Sorrentino, seguendo gli elementi che lo hanno portato a vincere l’Oscar per “La grande bellezza”, abbia costruito un prodotto un po’ troppo simile all’altro, nell’insieme, in un percorso ormai collaudato di caduta e redenzione dei personaggi, costantemente accompagnati dai propri fantasmi. Nonostante il colpo di scena finale. E nonostante l’innegabile maestria nel creare riferimenti metalinguistici (citazioni felliniane soprattutto), geometrie e divagazioni con la macchina da presa, allegorie scenografiche di sublime effetto (come il colpo d’occhio delle attrici lanciate in carriera dal regista interpretato da Harvey Keitel, che gli appaiono davanti maestose in una sorta di sogno ad occhi aperti, ricordandogli tutta la vita da cineasta).
Come sempre musica e immagine prevalgono sul racconto narrativo. L’insieme è di pregio, ma forse Sorrentino avrebbe potuto dilungarsi di meno, quasi al limite labile dell’autocelebrazione, e rischiare di più. Anche se, alla fine, l’Arte e le emozioni sono la migliore giustificazione per un film che lo stesso regista definisce «molto personale, intimo, scritto e pensato in poco tempo. Il mio messaggio è semplice: con il passato non si è liberi perché è andato, con il presente lo si è poco, ma il futuro, anche se breve, è la più grande prospettiva di libertà che abbiamo».
Chi pensava, vedendo due anziani disincantati che ricordano la loro vita in una stazione termale svizzera, che con il titolo “Youth – La giovinezza” Sorrentino ci “prendesse in giro”, si è sbagliato di grosso. Youth è un film sulla giovinezza. Nelle sue più disparate e disperate declinazioni. E sul tempo: «È l’unico soggetto possibile – ha spiegato il regista a Cannes – il tempo è l’unica cosa che ci interessa veramente, quanto ne passa e quanto ce ne rimane. Ma a qualsiasi età se si riesce a mantenere uno sguardo sul futuro si può essere giovani. Per questo è un film molto ottimista».
C’è la giovinezza ammirata nelle forme di Miss Universo, quella rimpianta nei ricordi di due amici artisti, quella reale e disorientata che si esprime attraverso un attore in cerca di ispirazione, e nell’infelicità della figlia del protagonista, da poco lasciata dal marito. Accanto a loro, altre esistenze appena accennate: un alpinista solitario, una massaggiatrice che cerca ogni sera la propria felicità ballando nella sua camera, una giovane squillo dell’albergo dallo sguardo perso. E perfino la brutta copia di Diego Armando Maradona che si trascina goffamente da una piscina all’altra, tentando di ritrovare il perduto benessere psico-fisico.
Dopo l’assordante mondanità di Roma, la malinconica umanità sorrentiniana, fatta di individui fondamentalmente soli, trova posto nella silenziosa Svizzera dei centri termali incastonati tra le montagne, una Svizzera geometrica e patinata, ma fredda e dolente. Al centro, la vita e i segreti dell’anaffettivo e cinico Fred Balinger (Michael Caine), famosissimo direttore d’orchestra in pensione, ora dedito all’apatia (“le emozioni sono sopravvalutate”). Il film porta a riflettere sugli anni che passano, le scelte, gli errori e le stravaganze (“la leggerezza è anche perversione”), ma al di là della bravura degli attori (strepitosa l’apparizione di Jane Fonda nel ruolo, forse un po’ scontato, di un’attrice dell’età d’oro hollywoodiana) e dei virtuosismi tecnici, “Youth” non riesce a decollare e sembra accartocciarsi su se stesso. L’impressione è che Sorrentino, seguendo gli elementi che lo hanno portato a vincere l’Oscar per “La grande bellezza”, abbia costruito un prodotto un po’ troppo simile all’altro, nell’insieme, in un percorso ormai collaudato di caduta e redenzione dei personaggi, costantemente accompagnati dai propri fantasmi. Nonostante il colpo di scena finale. E nonostante l’innegabile maestria nel creare riferimenti metalinguistici (citazioni felliniane soprattutto), geometrie e divagazioni con la macchina da presa, allegorie scenografiche di sublime effetto (come il colpo d’occhio delle attrici lanciate in carriera dal regista interpretato da Harvey Keitel, che gli appaiono davanti maestose in una sorta di sogno ad occhi aperti, ricordandogli tutta la vita da cineasta).
Come sempre musica e immagine prevalgono sul racconto narrativo. L’insieme è di pregio, ma forse Sorrentino avrebbe potuto dilungarsi di meno, quasi al limite labile dell’autocelebrazione, e rischiare di più. Anche se, alla fine, l’Arte e le emozioni sono la migliore giustificazione per un film che lo stesso regista definisce «molto personale, intimo, scritto e pensato in poco tempo. Il mio messaggio è semplice: con il passato non si è liberi perché è andato, con il presente lo si è poco, ma il futuro, anche se breve, è la più grande prospettiva di libertà che abbiamo».
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