Migranti e pozzi di petrolio, l'Italia inerme - Diritto di critica
Non siamo in grado di arrestare il flusso di disperati che affrontano il mare e non sappiamo come difendere i nostri interessi nazionali in Libia. Siamo soli e soprattutto abbiamo abdicato al nostro ruolo nel Mediterraneo
Soli. Soli, loro in mezzo al mare. Soli, noi, abbandonati dall’Europa e incapaci di difendere i nostri interessi nazionali. Così rimaniamo a guardare da una finestra, in attesa che l’ “alluvione” passi, con un fatalismo tutto italiano, mentre in mezzo al mare pochi uomini fanno quello che possono, tra le onde, a salvare queste anime in fuga.
Perché? “Buon appetito a tutti i pesci che si cibano di chi toglierebbe il cibo a noi italiani”. Questo è solo uno dei tanti agghiaccianti tweet postati sul web da gente che non sa più riconoscere dentro di sé l’umanità. Sono morti. E non è una fatalità. Soprattutto sono morti pur sapendo che quella traversata è più dura e pericolosa di quella compiuta nel mitico passato da Ulisse. Non ci sono sirene e maghe. Solo onde. Solo paura. Solo sete e fame. E disperazione. Non c’è una Itaca alla quale tornare, solo il flebile sogno della libertà, mai provata ma desiderata. Un futuro migliore, lontano dalla paura, lontano dalla barbarie. Se un uomo sa cosa sta per affrontare, cosa sta per rischiare nel momento in cui il viaggio prosegue in mare o è un pazzo o è un disperato. Di quella disperazione di cui parliamo ma non riusciamo realmente a capire, perché morte, distruzione e guerre qui da noi sono solo un ricordo lontanissimo, un ricordo provato solo dai nostri nonni. Per questo, di fronte ad una scelta che appare folle, non possiamo far altro che rimanere in silenzio, unico modo per esprimere il nostro rispetto.
Cosa fare? Le soluzioni ci sono. Ma ad elencarle è semplice. Molto più difficile metterle in pratica. Il primo errore da non fare è quello di non pensare di risolvere il problema imponendo un blocco navale. Non solo perché è illegale in quanto sarebbe un atto di guerra, ma consisterebbe in veri e propri respingimenti per i quali l’Italia è stata già condannata. I respingimenti farebbero solo aumentare la pressione sulle coste libiche, aggiungendo tensioni ad una situazione balcanizzata che, viceversa, richiederebbe maggiore stabilità. E non sarebbe sufficiente nemmeno combattere gli scafisti, spesso disperati a loro volta, alla ricerca di facili guadagni. La lotta, semmai, dovrebbe riguardare le organizzazioni criminali che fatturano milioni di euro con la tratta di esseri umani, il secondo business illegale al mondo dopo quello della droga. Ma rimane poi il problema dei conflitti – anche religiosi – che interessano i paesi subsahariani. È questo il nodo centrale del problema, forse anche più grave della povertà sistemica che interessa l’Africa nera. La penetrazione di gruppi di fondamentalisti islamici affiliati ad Al Qaeda e all’Isis in Mali, in Libia, in Somalia e in Nigeria stanno destabilizzando un intero continente.
Quello che non possiamo fare. Purtroppo l’Italia è sola ad affrontare questa emergenza. Malta e la Grecia, gli altri due paesi Ue interessati dal fenomeno, possono contribuire solo in maniera marginale. Ma l’Italia è sola anche perché negli anni ha perso la sua credibilità internazionale (oggi sostenuta esclusivamente dal contributo militare dato in Afghanistan e in Libano) e soprattutto si sente sola perché non è capace con i propri mezzi, anche militari, di difendere i propri interessi nazionali. Non è in grado di condurre un’operazione su vasta scala in Libia ma al massimo può pianificare interventi mirati contro scafisti e occupando i porti da cui i barconi partono. Non si tratta di un problema di preparazione militare che tra le altre cose i nostri militari hanno acquisito anche sul campo in Afghanistan e Iraq. Ma si tratta di numeri. I continui tagli di personale e di armamenti hanno reso le forze armate italiane uno strumento certamente utile di fronte alla necessità di intervento in scenari di peace keeping in un contesto multilaterale. Ma la riduzione di armamenti e uomini, perché gli analisti non sono stati in grado di prevedere le nuove possibili minacce da sud, mette le nostre forze armate non in grado di intervenire autonomamente, come stanno facendo già da qualche anno i francesi in Mali. C’è un problema di risorse, ovviamente. Ma c’è anche un problema politico di fronte allo scarso interesse degli italiani per gli argomenti di politica estera e una certa avversione di una parte della società civile nei confronti delle forze armate. Così Renzi deve volare a Washington per chiedere – senza successo – ad Obama l’uso di droni per un’eventuale intervento militare. All’Italia ora non resta che attendere il via libera dell’Onu e soprattutto l’aiuto dei francesi. Il prezzo sarà alto, perché significa cedere nel futuro quote di sfruttamento dei pozzi petroliferi in Libia. Ma tant’è. Il prezzo di rimanere a guardare potrebbe essere più salato, per l’Italia e per quei tanti tantissimi disperati che sognano un futuro migliore.
Soli. Soli, loro in mezzo al mare. Soli, noi, abbandonati dall’Europa e incapaci di difendere i nostri interessi nazionali. Così rimaniamo a guardare da una finestra, in attesa che l’ “alluvione” passi, con un fatalismo tutto italiano, mentre in mezzo al mare pochi uomini fanno quello che possono, tra le onde, a salvare queste anime in fuga.
Perché? “Buon appetito a tutti i pesci che si cibano di chi toglierebbe il cibo a noi italiani”. Questo è solo uno dei tanti agghiaccianti tweet postati sul web da gente che non sa più riconoscere dentro di sé l’umanità. Sono morti. E non è una fatalità. Soprattutto sono morti pur sapendo che quella traversata è più dura e pericolosa di quella compiuta nel mitico passato da Ulisse. Non ci sono sirene e maghe. Solo onde. Solo paura. Solo sete e fame. E disperazione. Non c’è una Itaca alla quale tornare, solo il flebile sogno della libertà, mai provata ma desiderata. Un futuro migliore, lontano dalla paura, lontano dalla barbarie. Se un uomo sa cosa sta per affrontare, cosa sta per rischiare nel momento in cui il viaggio prosegue in mare o è un pazzo o è un disperato. Di quella disperazione di cui parliamo ma non riusciamo realmente a capire, perché morte, distruzione e guerre qui da noi sono solo un ricordo lontanissimo, un ricordo provato solo dai nostri nonni. Per questo, di fronte ad una scelta che appare folle, non possiamo far altro che rimanere in silenzio, unico modo per esprimere il nostro rispetto.
Cosa fare? Le soluzioni ci sono. Ma ad elencarle è semplice. Molto più difficile metterle in pratica. Il primo errore da non fare è quello di non pensare di risolvere il problema imponendo un blocco navale. Non solo perché è illegale in quanto sarebbe un atto di guerra, ma consisterebbe in veri e propri respingimenti per i quali l’Italia è stata già condannata. I respingimenti farebbero solo aumentare la pressione sulle coste libiche, aggiungendo tensioni ad una situazione balcanizzata che, viceversa, richiederebbe maggiore stabilità. E non sarebbe sufficiente nemmeno combattere gli scafisti, spesso disperati a loro volta, alla ricerca di facili guadagni. La lotta, semmai, dovrebbe riguardare le organizzazioni criminali che fatturano milioni di euro con la tratta di esseri umani, il secondo business illegale al mondo dopo quello della droga. Ma rimane poi il problema dei conflitti – anche religiosi – che interessano i paesi subsahariani. È questo il nodo centrale del problema, forse anche più grave della povertà sistemica che interessa l’Africa nera. La penetrazione di gruppi di fondamentalisti islamici affiliati ad Al Qaeda e all’Isis in Mali, in Libia, in Somalia e in Nigeria stanno destabilizzando un intero continente.
Quello che non possiamo fare. Purtroppo l’Italia è sola ad affrontare questa emergenza. Malta e la Grecia, gli altri due paesi Ue interessati dal fenomeno, possono contribuire solo in maniera marginale. Ma l’Italia è sola anche perché negli anni ha perso la sua credibilità internazionale (oggi sostenuta esclusivamente dal contributo militare dato in Afghanistan e in Libano) e soprattutto si sente sola perché non è capace con i propri mezzi, anche militari, di difendere i propri interessi nazionali. Non è in grado di condurre un’operazione su vasta scala in Libia ma al massimo può pianificare interventi mirati contro scafisti e occupando i porti da cui i barconi partono. Non si tratta di un problema di preparazione militare che tra le altre cose i nostri militari hanno acquisito anche sul campo in Afghanistan e Iraq. Ma si tratta di numeri. I continui tagli di personale e di armamenti hanno reso le forze armate italiane uno strumento certamente utile di fronte alla necessità di intervento in scenari di peace keeping in un contesto multilaterale. Ma la riduzione di armamenti e uomini, perché gli analisti non sono stati in grado di prevedere le nuove possibili minacce da sud, mette le nostre forze armate non in grado di intervenire autonomamente, come stanno facendo già da qualche anno i francesi in Mali. C’è un problema di risorse, ovviamente. Ma c’è anche un problema politico di fronte allo scarso interesse degli italiani per gli argomenti di politica estera e una certa avversione di una parte della società civile nei confronti delle forze armate. Così Renzi deve volare a Washington per chiedere – senza successo – ad Obama l’uso di droni per un’eventuale intervento militare. All’Italia ora non resta che attendere il via libera dell’Onu e soprattutto l’aiuto dei francesi. Il prezzo sarà alto, perché significa cedere nel futuro quote di sfruttamento dei pozzi petroliferi in Libia. Ma tant’è. Il prezzo di rimanere a guardare potrebbe essere più salato, per l’Italia e per quei tanti tantissimi disperati che sognano un futuro migliore.